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MAKING MOVIESAL CINEMA
Dal cinema indipendente a Hollywood
Gus Van Sant
2020 
UNDER THE SPOTLIGHT
all MAKING MOVIES
30/11/2020
Gus Van Sant
Dal cinema indipendente a Hollywood
Non è semplice inquadrare il percorso artistico di Gus Van Sant, regista al quale la critica ha appuntato l'etichetta di esponente del cinema indipendente ma che non disdegna, con ottimi risultati peraltro, di confrontarsi con l'industria cinematografica hollywoodiana. Lo fa con la solita, impeccabile perizia il nostro Dario Lopez in questa lunga retrospettiva sul regista statunitense. Prendetevi tutto il tempo necessario.

Personalità curiosa ed eclettica, Van Sant porta nel suo cinema l'elaborazione e il risultato delle numerose influenze che fin dalla giovinezza hanno alimentato la sua vena creativa portandolo a cimentarsi con la fotografia, con la pittura, con letteratura e musica. È una concezione di cinema completamente libera quella di Van Sant che non accetta, e non prende neanche in considerazione, l'idea di incanalare la sua visione all'interno di rigide griglie programmatiche dettate dal gusto comune, dal volere del pubblico o dai dettami dell'industria, seppure, in qualche modo, chiunque voglia continuare a lavorare nel campo qualche angolo prima o poi è destinato a smussarlo. Libertà e movimento, concettuale e spaziale, alle basi di una poetica capace di guardare in ogni direzione, con un occhio di riguardo ai temi dello spostamento se non proprio del viaggio, della vita ai margini, dei protagonisti non ancora finiti, sempre in cerca di qualcosa o di sé stessi, dello spazio, dello scarto da ciò che è percepito come normalità dal pensare comune. Forse proprio questi sono i motivi alla base del ricorrente accostamento tra la visione esistenziale del regista e quella di numerosi scrittori della beat generation, William Burroughs in testa, che con Van Sant collaborerà diverse volte.

A partire dall'infanzia la vita di Van Sant è un movimento continuo: nasce nel Kentucky (classe 1952), viaggia con la famiglia a causa del lavoro del padre costretto a spostarsi di frequente, studia al college presso la Rhode Island School of Design di Providence, matura le prime esperienze (seppur poco significative) nel mondo del cinema a Hollywood, consolida la sua formazione a New York in campo pubblicitario e finalmente approda a Portland, città ricorrente nelle sue future produzioni e alla quale Van Sant sembra legato in maniera particolare. Tappa dopo tappa, accumula esperienze di vita; così come la formazione scolastica gli fornisce strumenti e competenze per farsi largo nel mondo del cinema indipendente, il contatto con l'ambiente dei giovani artisti desiderosi di sfondare a Hollywood, le loro vite a volte eccessive, a volte ai margini, diventano ottimo materiale per narrare storie dal taglio inconsueto. Fondamentale nella produzione del regista la sua dichiarata omosessualità che nel suo cinema diventa spesso tema, tanto da consentirgli di essere considerato tra gli esponenti di spicco della corrente del New Queer Cinema in compagnia di colleghi come Ang Lee, Todd Haynes o Greg Araki. Se il suo primo corto, Fun with a bloodroot, è datato 1967, anno in cui Van Sant aveva appena quindici anni, all'epoca del college è la pittura il primo interesse del futuro regista. È con l'esperienza alla Rhode Island School of design, in seguito alla visione di alcuni video sperimentali, che Van Sant elegge a suo mezzo espressivo primario il cinema, nonostante una produzione già nutrita di cortometraggi, è solo in seguito alla permanenza a New York che Van Sant potrà farsi valere e potrà produrre, grazie ai soldi guadagnati lavorando nel mondo della pubblicità, il suo primo lungometraggio.

Escludendo Alice in Hollywood, primo suo tentativo incompiuto di realizzare un lungo, è con Mala Noche che Gus Van Sant affronta il suo debutto autoprodotto. Presentato in numerosi festival, il film raccoglie fin da subito consensi da parte della critica specializzata. Non è un caso che il primo lavoro di Van Sant sia tratto da un racconto di Walt Curtis, scrittore (e poeta e pittore) legato al movimento della beat generation, così come non è un caso che la prima inquadratura guardi uno spazio aperto, che poi si sposti all'interno di un treno in movimento nel suddetto spazio, e si soffermi sui volti di due giovani messicani, clandestini destinati ad abitare le vie di Portland in cerca del proprio destino. Bastano poche sequenze per identificare i temi portanti propri della sensibilità dell'autore: spazi, marginalità, sessualità e sguardo indipendente, qui sottolineato dalla fotografia granulosa di John J. Campbell, espressa in un potente bianco e nero che sembra non concedere sfumature, in grado di tagliare letteralmente in due luoghi e personaggi in una metaforica scissione tra luce e buio. Si intuisce da subito come il regista abbia una confidenza già consolidata con la macchina da presa, strumento capace di restituire sguardi consapevoli dalla strada, di chiudere sui volti, di animare oggetti e dar peso a gesti e particolari. Non indugia il Van Sant narratore, in pochi secondi conduce lo spettatore al nodo della vicenda, con un alternarsi di dialoghi e voce off presenta l'infatuazione di Walt (Tim Streeter) per uno dei due messicani, il giovane Johnny (Doug Cooeyate) e i suoi intraprendenti e sfacciati tentativi di portarselo a letto. Walt finirà invece per avere un rapporto con l'altro ragazzo, Roberto (Ray Monge). La camera si sofferma sui giovani corpi, nudi frontali compresi, li accarezza, mostra una fascinazione che il regista ha espresso e immortalato nel corso degli anni anche in una bellissima serie di ritratti, scatti di Polaroid a giovani star (compresi i tre protagonisti di Mala Noche) fermate per sempre nel tempo, in un momento preciso della loro vita, come a congelare eternamente una vitalità destinata a scomparire. Scatti che con Mala Noche hanno in comune la scelta prevalente del bianco e nero, mentre sperimentazioni con il colore sono nel film riservati a brevissime sequenze nelle quali i protagonisti appaiono ripresi in video. L'esordio è tutto al maschile, cinema d'uomini ancora da farsi, senza una meta prefissata, proprio come le nuvole che sopra il deserto corrono via veloci. La struttura è inconsueta, non banale, e proprio per questo apprezzata dalla critica che riconosce a Van Sant la capacità di una narrazione originale e quanto mai necessaria. Un bell'esordio che però non porterà fortuna ai protagonisti del film, attori destinati a carriere secondarie, ai margini, proprio come le vite dei personaggi da loro interpretati.

La vera consacrazione del talento di Van Sant arriva nel 1989, anno in cui esce Drugstore Cowboy, film al quale ai consensi della critica si unisce quello unanime del pubblico, a tutt'oggi uno dei lavori del regista ricordato dai suoi spettatori con maggior entusiasmo. Lo sguardo è lucido, realistico, non giudica, non condanna né cerca attenuanti, è lo sguardo di chi è realmente interessato a una condizione, a una situazione, perché l'ha vista da vicino, e la racconta senza indagarne troppo i motivi, caratteristica ricorrente di un regista che non ha la pretesa di voler spiegare le ragioni che si celano dietro una fuga (Mala Noche), nell'oblio delle droghe (Drugstore Cowboy) o addirittura quelle nascoste dietro a un violento massacro (Elephant). Con Drugstore Cowboy il cast si allarga all'universo femminile, i volti (anche questi immortalati da splendide Polaroid) diventano più riconoscibili, si passa dal bianco e nero al colore, fermo restando la caratteristica granulosità delle immagini affidate questa volta alla fotografia di Robert Yeoman. Come lo stesso Van Sant dichiara in un'intervista di qualche tempo fa, nonostante l'amore per il girato in bianco e nero, il passaggio al colore, per logiche di distribuzione, a un certo punto divenne una scelta obbligata. Una scelta che non si rimpiange, Drugstore Cowboy presenta infatti una fotografia eccezionale che in qualche modo si ricollega al film precedente, con i video amatoriali girati dagli stessi protagonisti, con la suburbia della Portland degli scali ferroviari, con le immagini cullate dalla musica e ancora una volta dalle nuvole in movimento. Subentra qui una sorta di pessimismo, un senso di predestinazione che nel film d'esordio, pur incentrato su protagonisti in situazioni di disagio, non si percepiva così chiaramente. È lo stesso Matt Dillon, artefice di una bellissima interpretazione, forse una delle sue migliori, ad ammettere che: "il nostro era un gioco in perdita, non potevamo vincere, anche nella migliore delle ipotesi". Van Sant asciuga la storia di questa banda di tossici che per mantenere il proprio vizio rapina drugstore, la ripulisce da qualsivoglia tentazione di renderla cool, adatta il romanzo autobiografico di James Fogle nella maniera più realistica possibile e ne trae un gran film che, come accadeva nel precedente, pur narrando situazioni ai limiti, non calca mai la mano sulla rappresentazione della violenza, Van Sant è prima di tutto interessato al quotidiano dei suoi personaggi, alla normalità delle loro vite inserite in un contesto davvero poco ordinario. Semplicemente geniale la scelta di tagliare la parte di un predicatore tossico su misura per William Burroughs, valore aggiunto e ciliegina sulla torta.

Proprio insieme a Burroughs Van Sant intraprende un nuovo cammino che lo porterà a confrontarsi con il mondo dei videoclip musicali. Thanksgiving prayer viene ufficialmente considerato il primo di questi, in realtà si tratta di un'invettiva su fondo musicale che lo scrittore rivolge all'America, una denuncia per un paese che ha profondamente deluso il poeta della beat generation. Nonostante Van Sant si sia sempre occupato di realtà dimenticate dal sogno americano e da chi di quel sogno si dichiara protettore, in questo video di poco più di un paio di minuti, per la prima volta si inscena un chiaro atto d'accusa all'America, accusa veicolata più da William Burroughs che non da un regista al quale sembra non premere più di tanto puntare il dito. Se Thanksgiving prayer si può tranquillamente assimilare ai vari corti sperimentali di Van Sant, il vero debutto come direttore di un video musicale si può ricondurre alla regia di Fame 90 di David Bowie all'interno del quale è difficile trovare segnali di stile tipici del regista di Portland, vagamente riscontrabili invece, per quel che concerne gli spazi e alcuni simbolismi, nel video di I'm seventeen di Tommy Conwell & The Young Rumblers.

Belli e dannati, titolo italiano che non rende giustizia all'originale My own private Idaho, conferma Van Sant, se ancora ce ne fosse bisogno, come regista di talento ma soprattutto come autore completo, autore che ha a cuore un discorso che cerca di portare avanti e approfondire in maniera coerente. Ancora una volta è la condizione di disagio giovanile a farla da padrona, la vita sulla strada (di nuovo Portland ma non solo), la contrapposizione tra la società borghese e quella degli emarginati. Ancora una volta Van Sant non muove accuse, culla i suoi personaggi, ragazzi di strada che per vivere si prostituiscono, corpi giovani e iconici, protagonista la coppia d'amici formata dal senza famiglia Mike (River Phoenix) e da Scott (Keanu Reeves) figlio scellerato e ribelle del sindaco di Portland. Le gioventù bruciate narrate nel film si tradussero alcuni anni più tardi in due eventi luttuosi che diedero macabra popolarità a Belli e dannati; nel 1993 scompare a causa di un overdose il giovane River Phoenix, astro nascente e splendida promessa spezzata, seguito cinque anni più tardi dal collega Rodney Harvey morto per cause similari. Ragazzi contro, proprio come i salmoni che in un paio di sequenze del film risalgono la corrente. La figura femminile in My own private Idaho è ispiratrice, un mero miraggio, fantasia salvifica, ancora una volta è il mondo maschile a finire sotto i riflettori in un'altra storia che stupì positivamente sia pubblico che critica e, probabilmente, anche la New Line Cinema che decise di prendersi il rischio (ben soppesato in seguito al successo di Drugstore Cowboy) di distribuire un film con tematiche così controverse.

Lanciato nell'empireo del cinema indipendente, divenuto realtà solida e appetibile anche per l'industria cinematografica, Van Sant si prende dei rischi, rimescola le carte in tavola e da personaggio eclettico qual è cambia direzione. E, come si dice in gergo, scazza di brutto. Cowgirl - Il nuovo sesso, tratto dal romanzo di Tom Robbins Even cowgirls get the blues, è un grandissimo flop commerciale e il primo film del regista a venire massacrato dalla critica. Il taglio passa da quello del cinema indipendente a quello della commedia grottesca. Pur rimanendo su binari inusuali e poco battuti, il film risulta più addomesticato, meno incisivo e sicuramente molto meno riuscito e interessante dei precedenti, paga probabilmente pegno per essere arrivato dopo un trittico di pellicole decisamente significative. Anche la fotografia di John J. Campbell, già all'opera in Mala Noche e in Belli e dannati, è qui meno fascinosa, così come lo sono meno gli spazi aperti nei quali è ambientato gran parte del film rispetto alle strade di Portland tanto care al regista. La vicenda è questa volta tutta al femminile, Sissi Hankshaw (Uma Thurman) è nata con due pollici abnormi, bollati da tutti come mero difetto fisico quando la protagonista è ancora in tenera età, trasformano poi la loro proprietaria nella regina dell'autostop, una giovane donna, ex fotomodella, che fa dello spostamento in libertà uno stile di vita, un fine ultimo più che un mezzo. Non mancano nel film accenni di femminismo e slanci di girl power (e penso più che altro al personaggio di Rain Phoenix, sorella di River al quale il film è dedicato), tematiche trattate in maniera leggera e che forse non sono proprio nelle corde del regista. Anche le nuvole si fermano, sono i cieli stellati a muoversi, quasi a indicare un ribaltamento di prospettiva, così come all'amore omosessuale si sostituisce quello saffico. Purtroppo il film è innocuo, non lascia il segno, oltre agli splendidi occhi blu di Uma e alla colonna sonora di K. D. Lang rimane ben poco. Un ulteriore passo verso un processo di normalizzazione arriva con Da morire, per il quale Van Sant trova la distribuzione di una major (la Columbia) e si avvale di un cast composto da nomi ormai pronti ad arrivare alla grande fama, su tutti il suo Matt Dillon e la lanciatissima Nicole Kidman. Un'altra donna in un ruolo da protagonista assoluta e ancora una volta la commedia, che qui però si allontana dal grottesco per virare più su toni da black comedy. Altro passo verso la costruzione di un cinema adatto a platee più ampie viene fatto scegliendo Danny Elfman alle musiche e utilizzando un montaggio capace di dare un ritmo brioso all'intera pellicola grazie ai frequenti passaggi tra narrazione classica, dichiarazioni in camera della Kidman e interviste ai comprimari, sequenze che vanno pian piano a ricostruire la delittuosa vicenda al centro della quale troviamo la giovane, bella e ambiziosa Suzanne Stone in Maretto (Nicole Kidman). Nel cast anche un terzo membro della famiglia Phoenix, il giovane Joaquin, e il minore dei fratelli Affleck (Casey), altra famiglia che diverrà a breve molto importante per il regista. Il film funziona e si guarda oltre.

Quello che poco sopra è stato definito processo di normalizzazione però non inganni nessuno, Van Sant continua a essere un vulcano di idee occupandosi di pittura, fotografia e musica, proprio in questi anni, prima metà dei '90, collabora con i Red Hot Chili Peppers (conosciuti tramite il bassista Flea, attore in Belli e dannati), con Tracy Chapman, Chris Isaak, Elton John, K. D. Lang, Dee-Lite, Stone Temple Pilots, Candlebox e anche con il poeta Allen Ginsberg per la realizzazione di altrettanti video musicali. In Under the bridge dei RHCP il regista costruisce tutta una serie di sovrapposizioni di immagini che richiamano i suoi lavori di molti anni prima realizzati con la fotografia e la tecnica del cut up, mutuata direttamente dall'esperienza letteraria di Burroughs, nella composizione delle immagini si intravedono rielaborazioni di concetti già utilizzati dal regista e qui sfruttati sotto una nuova luce. Con i Dee-Lite ritorna sulle sovrapposizioni, su uno sguardo ad altezza strada e ancora alle nuvole in movimento, ai paesaggi e ai volti cari al suo cinema. Guardati uno dietro l'altro, anche nei videoclip di Van Sant si riconoscono elementi comuni e una certa cifra stilistica.

Il percorso intrapreso da Van Sant da Cowgirl in avanti subisce un'ulteriore scarto e trova il suo apice nel 1997, anno in cui esce Will Hunting - Genio ribelle, una di quelle parabole formative tanto care a Hollywood che non a caso viene premiata con due statuette dall'Academy (su ben nove nomination), una per la miglior sceneggiatura di Matt Damon e Ben Affleck e una al miglior attore non protagonista per l'indimenticato Robin Williams. Il Van Sant degli esordi sembra su un altro pianeta tanto è differente questo film da Mala noche o da Drugstore Cowboy. Will Hunting è un ottimo film, di quelli capaci di farti uscire dalla sala con quella piena sensazione di soddisfazione, intriso di tutte quelle caratteristiche che piacciono all'industria cinematografica americana: una bella storia d'amore, il percorso di formazione e riscatto del ragazzo ribelle, le scene madri e i passaggi commoventi con confronti a cuore aperto tra i protagonisti, una miscela d'elementi che portò il film a incassare cifre di tutto rispetto. Il problematico Will (Matt Damon), cresciuto nei quartieri poveri di South Boston e dotato di una propensione quasi miracolosa per la matematica, dovrà affrancarsi dall'ossessione del rifiuto e dell'abbandono per crearsi la possibilità di vivere una vita piena e felice. Se Drugstore cowboy fu la consacrazione di un maestro del cinema indipendente, con Will Hunting Van Sant si ritaglia un posto di riguardo anche nell'olimpo del cinema mainstream. Si può inoltre riconoscere al regista un vero talento nell'identificare e valorizzare attori alle prime esperienze importanti e destinati di lì a poco a una vera e propria esplosione: Matt Dillon (forse quello che poi ha mantenuto meno le promesse), Matt Damon, Keanu Reeves, Ben e Casey Affleck, Nicole Kidman, Uma Thurman e Joaquin Phoenix, tutti professionisti che in una maniera o nell'altra hanno lasciato il segno nella storia recente della settima arte.

Nessuno di questi però farà parte del successivo e ambizioso progetto del regista: rigirare lo Psycho di Alfred Hitchcock sequenza per sequenza (cameo del regista compreso), aggiornandolo dal bianco e nero al colore e trasportandone la vicenda dal 1960 al moderno 1998. Ennesima dimostrazione di come l'autore pensi fuori dagli schemi, il film si rivela il secondo fiasco della carriera del nostro, almeno stando a quel che ne disse pubblico e critica (e botteghino) all'epoca della sua uscita. Più che realmente brutto o irrispettoso (anzi), Psycho si rivela semplicemente inutile, urgenza creativa del regista che si concretizza in un'opera di cui il pubblico probabilmente non sentiva il bisogno. Poi per analizzare al meglio questo esperimento bisognerebbe andare ad accostare l'originale e il suo remake confrontandoli scena dopo scena per sviscerarne similitudini e differenze, cosa che in questa sede per questioni di spazio è impensabile fare. Esteticamente si apprezza come l'inevitabile modernizzazione di alcuni aspetti del film riesca comunque a riportare alla mente un'atmosfera tipicamente anni 60, per lo spettatore che si accinge alla visione senza conoscere il capolavoro di Hitchcock, lo Psycho di Van Sant, almeno per chi scrive, potrebbe rivelarsi non così terribile come in svariate sedi si è detto.

Con Scoprendo Forrester si può dire che l'ideale parabola artistica del regista raggiunga il suo vertice, non tanto a livello qualitativo, ma nel passaggio ideale tra un cinema totalmente indipendente (quello degli esordi) a uno più marcatamente mainstream, rappresentato dalle ultime due pellicole e da questo Scoprendo Forrester, film che esce nel 2000 e va a chiudere l'esperienza artistica di Van Sant nel vecchio millennio. Ma spendiamo due parole su Scoprendo Forrester, altro film hollywoodiano che ha il sapore di una variazione sul tema di Will Hunting. I punti in comune tra i due film sono diversi, toccano le stesse corde nello spettatore, entrambi sono stati accolti con favore da pubblico e critica, entrambi presentano narrazioni riuscite e coinvolgenti. Questa volta il ragazzo prodigio è il giovane Jamal Wallace (Rob Brown), il suo talento non è la matematica ma la letteratura, l'arte dello scrivere, che nel Bronx, quartiere dove Jamal vive, non è una qualità particolarmente apprezzata, proprio per questo all'apparenza la vera passione del ragazzo sembra essere il basket. Proprio come Will, Jamal arriva da un quartiere povero, pur avendo una famiglia non ha padre. Il sostituto della figura paterna, che in Will Hunting era identificabile con Robin Williams, è qui il Forrester del titolo (Sean Connery), sorta di eremita rintanato in un appartamento di uno dei condomini del quartiere popolare, uomo sul quale circolano ogni tipo di dicerie. In seguito al loro incontro il giovane e l'adulto, proprio come accadeva in Will Hunting, scopriranno di avere molto da dare e da ricevere l'uno nei confronti dell'altro in un reciproco tentativo di tirarsi fuori dai propri gusci per affrontare ciò che la vita ha di bello da offrire. Se il primo film puntava più sul concetto di libertà e accettazione questo spinge di più sul riscatto, anche sociale, ma l'incedere della narrazione tra questi due episodi della carriera di Van Sant viaggia spesso su binari paralleli.

Una fine di millennio davvero piena quella di Gus Van Sant, anni nei quali il regista si è concesso il piacere di collaborare con scrittori e poeti come Burroughs e Ginsberg, di provare le vie della produzione, di lavorare per artisti del calibro di Bowie ed Elton John, di incidere un paio di album (Gus Van Sant e 18 songs about golf) e anche quello di scrivere un libro (Pink). Il nuovo millennio incombe, un altro percorso è lì da venire, la trilogia della morte è dietro l'angolo.

Primo capitolo della suddetta trilogia è Gerry che, a parte l'esordio Mala noche, probabilmente risulta essere il film di Van Sant ad aver goduto della minore visibilità, almeno qui da noi, dove non trovò alcuna distribuzione cinematografica. Seppure la scelta dei distributori italiani possa sembrare commercialmente giustificata, dal punto di vista artistico essa si rivela miope e provinciale. A parere di chi scrive Gerry rimane uno degli episodi più interessanti nella nutrita filmografia del regista, sicuramente ostico, magari per qualcuno non perfettamente riuscito, ma maledettamente ipnotico e intrigante. Inizia qui, in maniera decisa, un nuovo percorso dal sapore fortemente indipendente, libero come di più non potrebbe essere, cinema sperimentale e non convenzionale, forse ancor più che non ai tempi di Mala noche. Una rinascita, un nuovo passaggio dalle platee affollate di Hollywood alla solitudine di un cinema poco frequentato, un passaggio che potrebbe essere simbolicamente tracciato seguendo un'automobile, un'automobile scassata con all'interno Matt Damon, che nella scena finale di Will Hunting si allontana dalla periferia di Boston verso nuovi lidi per approdare alla sequenza iniziale di Gerry, dove un'auto scassata con a bordo Matt Damon si ferma al limitare di un sentiero, orizzonte dal quale si estende solo il più crudele deserto. Dalla Boston brulicante al deserto silenzioso. Dal cinema del grande pubblico a quello per pochi appassionati. Da quell'auto scendono Gerry (Matt Damon) e Gerry (Casey Affleck), coppia di amici in cerca di una meta turistica chiamata Wilderness trail e di lì a poco destinati a smarrirsi nel deserto, senza acqua né cibo. Due attori, paesaggi mozzafiato, spazi talmente aperti e sconfinati da diventare prigione, lunghi piani sequenza, una decina di minuti di parlato a dir tanto su un film di un'ora e mezza. Van Sant costruisce un intero film con niente, senza una storia (due amici si perdono nel deserto, eccovi la storia), con pochissimi dialoghi e per lo più privi di senso narrativo, con il territorio, con la musica e con una grande maestria nell'usare la camera. Grande lavoro per quel che riguarda il comparto sonoro, in assenza di dialogo sono i respiri a catturare l'attenzione, il vento, il pestare dei piedi sul terreno roccioso, finanche il tirare su con il naso dei protagonisti. Lo spettatore è chiamato a porre attenzione a tutto, ai dettagli, al movimento di camera che segue l'incedere sussultorio dei volti dei due Gerry al ritmo del loro passo, in un insieme che, con l'aiuto delle musiche di Arvo Part, riesce a evocare inquietudini e turbamenti. E infine non può rimanere che il silenzio. Prova indubbiamente sottostimata.

Ancora un'apertura sulle nuvole e sulla strada nella prima sequenza di Elephant, film nel quale morte e violenza sono al centro di un'opera per la cui realizzazione Van Sant dichiara di aver guardato a diverse fonti di ispirazione. È tristemente noto come il nucleo della vicenda prenda le mosse dalla strage della Columbine High School del 1999 a seguito della quale persero la vita tredici persone e ventiquattro rimasero ferite. La scelta del titolo allude al famoso modo di dire "ignorare l'elefante nella stanza", come qualcuno sembra aver fatto in occasione della tragedia alla Columbine ignorando alcuni sintomi di disagio percepibili nei futuri assassini. Il titolo è preso in prestito dall'omonimo film del regista Alan Clarke al quale Van Sant ha probabilmente attinto anche per alcune scelte artistiche. Per quello che riguarda lo stile adottato, Van Sant dichiara di aver seguito la filosofia del documentarista Frederick Wiseman, fautore di una visione di cinema che prevede una messa in scena non romanzata, capace di mantenere intatto lo spirito dell'evento narrato con una costruzione della vicenda slegata dalla ricerca del climax e del personaggio in cui lo spettatore si possa identificare, ma che persegue piuttosto inquadrature capaci di catapultarlo nella storia stessa, come se questi ne fosse testimone diretto. Cosa forse più importante, l'esigenza di adottare una narrazione priva di giudizio. Come già detto a Van Sant non interessano particolarmente le motivazioni di un gesto né gli  interessa mettere all'indice nessuno, in questo caso specifico il regista ci racconta una vicenda terribile con freddezza glaciale, impersonale, quasi a sottolineare l'insondabilità della follia, pronta a scatenarsi senza avviso alcuno (o quasi) irrompendo e stravolgendo una quotidianità fatta di routine e banalità disarmanti. La camera segue da vicino diversi studenti, interpretati tutti da attori non professionisti, che si muovono costantemente nei corridoi della scuola, diretti alle lezioni, intenti a chiacchierare tra loro, atti a svolgere le loro attività quotidiane, Van Sant mette in pratica alla perfezione gli insegnamenti di Wiseman, non c'è modo di immedesimarsi, sono assenti scene madri, tutto è avvolto in un'aura di anticlimax, anche quando la violenza esplode non si cerca mai l'effetto, la vicenda si carica di dramma in maniera naturale, come accadrebbe (e come è probabilmente accaduto) nella vita reale. Siamo ancora una volta di fronte a un'opera di un cineasta indipendente e intelligente, con uno sguardo che non ammicca al pubblico ma con contenuti e spunti di riflessione che sono arrivati in maniera molto forte, tanto da garantire a Elephant, in deroga allo stesso regolamento del Festival di Cannes, sia la Palma d'oro al film sia il premio per la miglior regia a Van Sant, episodio unico in tutta la storia della rassegna.

L'ideale trilogia della morte si chiude con quello che risulta essere l'episodio più difficilmente digeribile dal pubblico e nel complesso meno riuscito dei tre. Se Gerry ha la capacità ipnotica di catturare lo spettatore ed Elephant quella di farlo sentire fisicamente parte della storia, Last days pecca sotto questi due aspetti e sembra incapace di ritagliarsi una funzione o un qualche tipo di approccio nei confronti del pubblico, in questo il film può considerarsi un ulteriore passo verso un'estremizzazione di un cinema divenuto negli ultimi anni di per sé già molto particolare. Ma Van Sant non cerca l'elitarismo, prosegue il suo percorso di riflessione sulla morte, che è quello che interessa al regista, narrandoci gli ultimi giorni della rockstar Blake (Michael Pitt), figura ispirata a Kurt Cobain dei Nirvana ma che non ne ripercorre pedissequamente i passi precedenti la tragica e prematura dipartita. Se gli adolescenti di Elephant erano tallonati da vicino dalla telecamera, Blake è invece spesso spiato da lontano, immerso in una natura che dona al film i colori del verde e del marrone legati ai boschi e alla terra, così come nel film precedente venivano fuori i gialli dell'autunno e in Gerry le varie gradazioni del deserto. Nella trilogia la natura ha un ruolo importante, ricorre la presenza del falò notturno (già vista anche in Belli e dannati), elementi che fanno da collante tra i film insieme alla cifra stilistica di una visione distaccata e poco emotiva delle vicende narrate e a qualche riferimento enigmatico sparso qua e là, ad esempio il Gerry al quale allude il regista Harmony Korine, presente in un piccolo ruolo in Last days, potrebbe essere a ragion veduta uno dei due Gerry dell'omonimo film. Gli ultimi giorni passano per Blake vagando in uno stato confusionale, incapace di confrontarsi con il mondo, circondato dai componenti della band eppure solo, un'anima in prigione all'interno della grande casa in cui il film è girato, in prigione nella libertà dei boschi, proprio come lo erano Gerry e Gerry nel deserto. E ancora una volta, come accadeva in Elephant, nessuno vede, nessuno si accorge. Ancora una volta rimane il silenzio. Originale il lavoro portato avanti in colonna sonora dove si evitano totalmente i brani dei Nirvana ma si sceglie di far comporre agli stessi attori alcuni pezzi da proporre durante il film, tra questi composizioni di Michael Pitt e Lukas Haas, ennesima dimostrazione dell'attenzione del regista per l'impianto musicale delle sue opere al quale qui contribuiscono anche pezzi dei Velvet Underground e un'interpretazione dei King's Singers del brano La guerre.

Dopo la trilogia, nel 2005, riprende anche l'attività legata alla direzione di video musicali interrottasi nel 1998 con la realizzazione di Weird per i fratelli Hanson (proprio loro, quelli MMMBop) per i quali Van Sant scatta anche un'interessante serie di fotografie in collaborazione con la rivista Interview. Si gioca sulla composizione per il video Who did you think I was di John Mayer in un'inquadratura fissa tripartita. Due mani scelgono un vinile e lo poggiano con delicatezza su un giradischi posto accanto a una finestra. La camera stringe, nella composizione un terzo è riempito dalla stanza, un terzo dal disco che gira, un terzo dalla finestra. L'inquadratura non si muove, fuori dalla finestra però la vita scorre, auto, passanti, il disco gira e sullo stesso si riflette il cielo che sta lì, fuori dalla finestra, insieme alle nuvole tanto care al regista. Un bel risultato portato a casa apparentemente con niente, ancora una volta il genio del regista viene fuori in sottrazione.

In controtendenza invece, nel film successivo, Van Sant sembra aggiungere qualcosa, per Paranoid Park il taglio sembra passare da un cinema indipendente molto marcato a un approccio autoriale, sempre riconoscibile e originale, che però fa un passo anche verso il pubblico che, nonostante tutto, non premiò il film a dovere come invece fece la critica insignendolo del premio speciale per il 60° anniversario del Festival di Cannes. Sono molti gli elementi di ritorno in Paranoid Park: la città di Portland, il disagio adolescenziale, l'affidarsi a diversi attori non professionisti, i corridoi di un college, la scena del falò e la morte, qui quasi incidentale ma fondamentale per lo sviluppo del personaggio centrale, lo skater Alex (Gabe Nevins). In più nasce una punta di fondamentale speranza, la possibilità di rinascita marcata anche da una voglia di alleggerire un poco i toni e sottolineata dalla scelta di intensificare i dialoghi, di rendere la narrazione meno ostica, facilitata dall'uso di pezzi in colonna sonora più ruffiani e capaci di stemperare la drammaturgia accentuata messa in scena dal regista negli ultimi anni, pensiamo ad esempio all'utilizzo di I can help di Billy Swan sulle immagini del protagonista in movimento nei corridoi della scuola, un bello stacco dalla cifra stilistica di Elephant. Senza concedere un millimetro e senza rinunciare a una singola stilla della sua personalità Van Sant sembra trovare un equilibrio perfetto, il giusto compromesso tra la sua peculiare visione e una narrazione che avrebbe dovuto affascinare e appagare in larga misura anche il pubblico, non necessariamente solo il suo. Ma come dicevamo, quasi inspiegabilmente, così non è stato.

Sul versante incassi, i primi quattro film di questa ritrovata linea indipendente, messi tutti insieme, non si avvicinano neanche lontanamente a raggiungere un decimo degli introiti generati dal solo Will Hunting - Genio ribelle, non cumulano nemmeno un quarto dei biglietti staccati da Scoprendo Forrester e, sempre tutti insieme, non arrivano a eguagliare nemmeno i risultati di pellicole considerate poco riuscite come Psycho. Forse è il tempo di un nuovo successo commerciale, sappiamo ormai come Van Sant sia in grado di confezionarne con ottimi risultati; nel 2008 così arriva Milk, biopic sulla figura di Harvey Milk, primo politico dichiaratamente gay a ottenere una carica pubblica. L'Academy va in brodo di giuggiole, Oscar alla sceneggiatura, Oscar a Sean Penn come miglior protagonista, il pubblico apprezza, il film è il terzo miglior incasso della carriera del regista, critiche positive quasi unanimi, ancora una volta Van Sant sembra in grado di possedere un interruttore magico capace di permettergli di cambiare registro senza sforzo alcuno e affermarsi ancora una volta come ottimo interprete di quel che vuole lo show business. Per Milk tornano le star, oltre a Sean Penn nel cast anche un ispiratissimo James Franco, Josh Brolin e Emile Hirsch, gran lavoro sulla fotografia grazie all'opera del sodale Harris Savides (già con il regista per la trilogia e in Scoprendo Forrester) e sulla ricostruzione d'epoca di una splendida San Francisco nei Seventies. Centrale la tematica omosessuale, ancora una volta il regista si occupa di una storia segnata dalla morte, forse qui, in un film marcatamente più mainstream rispetto a quanto fatto negli ultimi anni, non sarebbe guastato calcare un po' di più la mano sui sentimenti, abbandonare completamente quell'idea di distacco che ha caratterizzato l'ultimo cinema del regista; ma a Van Sant in questo caso interessava l'aspetto politico di Harvey Milk, il suo progetto di inclusione, il pubblico questo l'ha capito e ha apprezzato.

Altro non si può fare se non rimanere spiazzati quando tre anni dopo, nel 2011, dopo essersi visto dedicare anche un paio di mostre per i suoi scatti fotografici1 (insieme a materiale di Andy Warhol) e per i suoi acquerelli2, Van Sant cambia nuovamente direzione rendendo difficile per tutti definire le tracce di una carriera quantomeno eterogenea se non proprio schizofrenica. Con L'amore che resta (Restless) viene naturale pensare che quella che è stata comunemente definita la trilogia della morte, che sembrava essersi chiusa nel 2005 con l'uscita di Last days, sia divenuta a tutti gli effetti una pentalogia, la presenza della dama con la falce viene infatti esaminata anche in Paranoid Park (come abbiamo già detto) e in questo nuovo film che, per la prima volta nella carriera del regista, vede protagonista a tutti gli effetti una coppia eterosessuale composta da Mia Wasikowska e Henry Hopper, figlio del compianto Dennis. Mai come questa volta la morte è centrale nell'economia della storia, è la morte normalizzata, lontana dalla tragedia insolita, dal gesto violento, dalla distruzione autoinflitta, è la morte banale, capace di sconvolgere una vita, quella dell'incidente d'auto, quella di una brutta malattia. Nonostante la portata del tema, l'incedere di L'amore che resta è quello della commedia romantica (anche se proprio di commedia non si può parlare), il tocco è dolce e gentile: nello sguardo, nei toni della fotografia, nelle musiche, nella leggiadria di personaggi feriti, dolci e strambi. L'incipit è straniante con il personaggio di Enoch Brae (Hopper) che sembra uscito da un libro di Palahniuk, un adolescente che vaga da un funerale all'altro, immergendosi nel dolore di perfetti sconosciuti. È proprio a uno di questi eventi che incontrerà Annabel Cotton, destinata a breve a fare i conti con il suo tumore al cervello. Il film purtroppo si è rivelato, inspiegabilmente a parere di chi scrive, il più grosso flop commerciale di Van Sant, nonostante temi, sviluppo e un approccio stilistico alla portata di tutti. Siamo lontani dagli sperimentalismi di Gerry o dallo stile freddo di Elephant, lo sguardo del regista è qui graziato da una delicatezza inedita con esiti che avrebbero potuto attecchire anche nei cuori di un certo pubblico adolescente, eppure L'amore che resta non raccoglie i consensi della critica e non raggiunge nemmeno i poverissimi incassi del decisamente più ostico Gerry. Si torna ai teenager qui vitali come mai lo sono stati in precedenza, nonostante un'esistenza a braccetto con la morte sono circondati da elementi vivissimi, sottolineati dal gioco dei costumi, da coloratissimi dolcetti e qualche tocco surreale, ottimi personaggi provenienti da una piece teatrale di Jason Lew, per intercessione di Bryce Dallas Howard portati al cinema grazie a un progetto che Van Sant ha accolto a braccia aperte e fatto suo.

Nel 2012 esce Promised land, fino a questo momento il lavoro più convenzionale e didascalico portato a termine dal regista, che qui subentra in un secondo tempo nella realizzazione di un progetto avviato da altri, tra i quali spicca l'amico ormai di lungo corso Matt Damon che in origine, oltre a interpretare il protagonista del film, avrebbe dovuto anche dirigerlo. La cifra stilistica di Van Sant si riconosce in alcune inquadrature che mettono la natura al centro della scena, nelle riprese aeree che inseguono i personaggi chiusi all'interno di un'auto o di un bus, espediente che già abbiamo visto utilizzare, ad altitudini variabili, proprio con Damon protagonista. Van Sant ci accompagna in un viaggio nel cuore della provincia americana (Iowa, forse Ohio, "perché, c'è differenza?"), quella contadina, vera, sincera, concreta, per raccontarci qualcosa di altrettanto concreto: Promised land si sarebbe potuto inserire nel filone molto prestigioso dei film d'inchiesta o di denuncia, si occupa infatti del tema della fratturazione idraulica, tecnica controversa utilizzata allo scopo di estrarre gas naturale dalla terra appartenente a famiglie di poveri agricoltori allo scopo di arricchire il colosso industriale di turno. Purtroppo l'approfondimento rimane blando, la sceneggiatura pone l'attenzione sui protagonisti, lo fa anche molto bene, oltre a Damon un'ottima Frances McDormand, lascia però il dibattito sulla potenziale nocività della fratturazione per le riserve idriche del terreno, relegato a fare da sfondo a una vicenda che assume toni più etici e sentimentali. Van Sant ci mette la sua professionalità più che le idee, il film è ben confezionato ma, all'interno del percorso artistico al quale il regista ci ha abituati, ha un po' il sapore del compitino ben svolto. Ad ogni modo Promised land rimane un buon film, legato all'oggi, alla terra, all'uomo e ai suoi dubbi, un film che si è rivelato un discreto successo per la critica ma che non ha avuto lo stesso riscontro per quel che riguarda gli incassi, molto lontani dagli esiti altamente remunerativi del Van Sant più hollywoodiano.

Le cose continuano ad andare male con il successivo La foresta dei sogni (2015) che se non riporta risultati esaltanti al botteghino, a differenza del film precedente accusa anche feroci critiche da parte di stampa e pubblico, a partire da quello presente al Festival di Cannes dove il film è stato presentato. Eppure, come già successo in passato con altri film del regista poco apprezzati, Van Sant qui si riappropria di un discorso autoriale che con tutta probabilità nella testa del regista non si è mai veramente concluso, La foresta dei sogni dà l'idea di essere un passo avanti in una direzione intrapresa da Van Sant anni e anni addietro, una mossa coerente che contiene i germi della crescita, dello sviluppo e dell'ampliamento di un discorso inerente la morte, ormai ideale compagna di viaggio del Nostro. Protagonista è Matthew McConaughey, uno degli interpreti più lanciati del momento, ad affiancarlo il giapponese Ken Watanabe ma soprattutto Naomi Watts che proprio con McConaughey mette in scena le dinamiche di una coppia eterosessuale, la seconda nell'ormai lunghissima carriera del regista e la prima composta da adulti, può sembrare un'osservazione banale ma non lo è, ci torniamo tra poco. Ancora una volta la morte, il suicidio con più precisione. La scelta consapevole della morte, anche questo è tema già trattato ma mai finora con un focus così puntuale sull'argomento. Il protagonista si reca nella foresta di Aokigahara in Giappone, il luogo è tristemente (e realmente) noto per il numero altissimo di suicidi che si consumano al suo interno, vi si reca con la ferma intenzione di porre fine alla sua esistenza. L'immersione nella natura è qui totalizzante, la foresta che è davvero un mare di alberi come recita il titolo originale del film, è la degna compagna del deserto in Gerry, minacciosa, sempre, a prescindere dalle intenzioni di chi vi entra o da quelle colme di pentimento di chi vorrebbe uscirne e più non vi riesce. Ci sono dolore e disperazione nella vicenda messa in scena da Van Sant, ma c'è anche quel barlume di speranza già intravisto in Paranoid Park che qui prende ancor più corpo, alimentato ancora una volta da uno splendido fuoco che dona luce ai volti di protagonisti persi, fisicamente e metaforicamente, nella notte della foresta, un fuoco reso splendidamente dalla fotografia di Kasper Tuxen. È una metamorfosi, è una sconfitta della morte questa volta (forse più un pareggio se vogliamo essere onesti), una sorta di coming of age spirituale che porta in superficie accettazione e consapevolezza sporcate forse un poco da un profumo di new age da rigattiere scalcagnato. Non tutto il percorso che affronta il protagonista e che lo porterà a ritrovare sé stesso è ben centrato, così come non lo sono alcune svolte dello sviluppo e le trovate più spirituali (chiamiamole così), a ogni modo molti di questi elementi vanno a segno, smuovono qualcosa e il vero merito della pellicola è che tutto questo, che è quello a cui maggiormente corre la mente pensando a La foresta dei sogni, non è nemmeno la parte più interessante del film. Ciò che colpisce è la naturalezza con cui Van Sant indaga i motivi che stanno alla base della scelta del protagonista, lo fa descrivendo il declino di una coppia sposata che vive la lenta erosione di un rapporto una volta idilliaco, una serie di flashback nei quali sta tutta la verità che a volte può venire a mancare in ciò che accade nella foresta o al di fuori delle quattro mura e del tetto coniugale. Lo sguardo sulla coppia da parte del regista, da sempre più interessato agli uomini, è incredibilmente veritiero, maturo, riporta a terra e alla dimensione umana qualsiasi deriva pseudo new age il film possa richiamare alla mente, è il rapporto tra Arthur e Joan che tocca il cuore, anche in maniera dolorosa, il loro ricordo, più di tutte le parole spese nella foresta dallo stesso Arthur in preda allo scoramento e dal compagno di sventura Takumi. Nonostante alcune scelte di stile riconducano quest'ultimo lavoro di Van Sant, come anche il precedente, a una regia non sempre immediatamente riconoscibile, ancora una volta è la poetica del regista ad essere ancora viva e personale.

Dopo un'incursione nella serialità televisiva con When we rise, docufiction che narra la nascita del movimento per i diritti dei gay della quale il regista firma i primi due episodi, nel 2018 Van Sant torna al biopic per un progetto inizialmente perorato da Robin Williams già ai tempi di Will Hunting e che purtroppo vede la luce quando l'attore non può più essere della partita. L'idea è quella di raccontare la storia di John Callahan, figura nota in quel di Portland come vignettista umoristico; la parte del protagonista viene affidata a Joaquin Phoenix che torna a lavorare con il regista dopo più di vent'anni. I disegni di Callahan sono parte integrante del film fin dalle prime battute, una delle vignette più significative e indice dell'umorismo dissacrante e politicamente scorretto del suo autore propone una frase che è anche il titolo originale del film: Don't worry, he won't get far on foot (non preoccuparti, non andrà lontano a piedi, lo dice un cowboy a un altro davanti a un sedia a rotelle abbandonata nel mezzo del deserto). La disabilità e la dipendenza dall'alcol sono l'accoppiata che stravolge la vita di un Callahan poco più che ventenne, costretto su una sedia a rotelle in seguito a un incidente d'auto, per narrarne la parabola Van Sant si affida a una struttura che pur nel classicismo alterna punti di vista soggettivi (il racconto per bocca di Phoenix alle assemblee degli alcolisti, alle platee di persone a lui vicine, nei dialoghi con il suo sponsor) a flashback da un tempo in cui le gambe funzionavano e l'alcol scorreva copioso, inserisce le vignette del disegnatore al momento più opportuno e raccorda sequenze con split screen che sembrano quasi degli slideshow, mantiene in equilibrio episodi di vivacità che un personaggio così forte e autoironico garantisce, a quelli in cui la commozione è inevitabile. La figura femminile è sia condanna (la madre che lo abbandona) che salvezza (il personaggio di Rooney Mara ma anche la figurata riappacificazione materna), anche in questo c'è un perfetto equilibrio, ma sono i comprimari maschili a donare maggior vigore alla narrazione con un magnifico Jonah Hill e un sempre apprezzabile Jack Black. In Don't worry esplode la speranza, il film è un discorso compiuto su come affrontare il dolore e superarlo, è un'apertura decisa in questo senso nel cinema di Van Sant e al momento l'ultimo film di un regista in continuo movimento e che senza dubbio riuscirà a regalarci altre emozioni nel prossimo futuro, in attesa che anche il grande pubblico torni ad abbracciarlo con un affetto che sembra ormai latitare fin dai tempi di Milk.

Proprio negli scorsi giorni ha visto la luce l'ultima avventura del Nostro che non si smentisce mai e continua a percorrere strade laterali, insieme al direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, Van Sant realizza una serie di sette cortometraggi che saranno il veicolo promozionale per la nuova collezione del brand di moda, impossibilitato dalla pandemia a presentare i nuovi capi alle classiche fashion week e già da tempo desideroso di sperimentare nuove vie per portare le sue creazioni a quanto più pubblico possibile. Ne esce un esperimento davvero molto interessante, anche per chi non è troppo attratto dallo stile Gucci che ovviamente caratterizza tutto il girato con modelli e brand sempre in bella vista. I sette episodi, con una media di poco sopra i dieci minuti di durata (un paio superano i quindici), raccontano la quotidianità di Silvia (Silvia Calderoni) in ambienti molto vintage che potrebbero richiamare i 70 come i primi 80 per gli elementi di décor ma che saltano da un'epoca all'altra nella ricerca musicale d'accompagnamento che va dalla classica a brani di Billie Eilish, dai Bronsky Beat fino a concretizzarsi in video con la presenza della stessa Eilish, del giovane Harry Styles che porta avanti un discorso sull'arte con Achille Bonito Oliva per arrivare a Florence Welch dei Florence and the Machine. Lo stile di Van Sant è ben visibile nei movimenti di camera che seguono i personaggi, il tema del superamento dei generi è dominante, nel campo della moda come la collezione Gucci dimostra, ma anche in campo filosofico e culturale, tema che ovviamente sta a cuore al regista e che trova una bella manifestazione verbale nel primo episodio attraverso le parole dello scrittore Paul B. Preciado. Van Sant e Alessandro Michele trovano effettivamente un bel punto d'incontro tra cinema e moda, indubbiamente non nuovo, capace però di portare la moda a una platea magari usualmente disinteressata all'argomento, pur avendo uno scopo promozionale i sette episodi si guardano con piacere e non mancheranno di suscitare curiosità non solo nei fan del regista ma anche nei confronti di chi prova interesse in tutto ciò che l'immagine ci propone. Ouverture of something that never ended, titolo collettivo dei sette episodi, è solo l'ultima zampata in ordine di tempo di un regista non etichettabile, in attesa della prossima idea ce lo godiamo per qualche secondo in un piccolo cameo abbigliato in puro stile Gucci.

 

1) One Step Big Shots: Portraits by Andy Warhol and Gus Van Sant - Jordan Schnitzel Museum of Art, Oregon

2) Unfinished - Gagosian Gallery, Los Angeles


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