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REVIEWSLE RECENSIONI
02/07/2021
St. Vincent
Daddy's Home
Io da lei mi aspetto di tutto. Che si inventi una cosa in grado di catturarmi al primo ascolto o che mi cambi le carte in tavola e mi lasci l’amaro in bocca. Che tanto poi lo capirò dopo, sicuro, quando mi avrà preso per mano e mi troverà pronto, col vestito giusto e le aspettative pettinate e tenute a bada, ma che già non serviranno più, perché tanto sarò entrato nel suo nuovo mondo.

Lo ammetto, considero St. Vincent qualcosa di superiore, di supremo. Non per questo, però, l’ascolto dandola per scontata, anzi, viste le aspettative, nei suoi confronti sono molto severo.

Mi sono riservato il tempo per ascoltare questo disco in un sol boccone e l’antipasto, la prima traccia con cui si inizia è “Pay your way in pain”. Quel piano saloon in cui l’ambiente è tutto e quei suoi respiri, che vogliono sembrare ansiosi ma invece sono controllati e messi a tempo.

La partenza sonora vera e propria, profonda, dove cogli per la prima volta nella sua interezza la qualità del suono così come i piani della voce, che sembra sdoppiata in settantadue tracce, crea un tessuto su cui è impossibile non sentirsi avvolti e fiduciosi, pur nella violenza del suono. I synth, con quel sottile rimando all’arpeggiatore di “Sweet dreams”, sembrano farla da padroni sul mondo acustico delle chitarre e dei fusti ritmici, ma non è così, sono esattamente in equilibrio, come conferma la pasta vocale di Annie Clarke, che sa essere profonda, ma anche cruda e ferita, come nella nota lunga e straziata che porta al finale.

Ah giusto, Daddy’s home. Papà è tornato a casa. Quello che si sottolinea nel titolo dell’album è letteralmente il ritorno a casa del padre dopo gli anni di prigionia cui è stato costretto e da cui è uscito poco prima della scrittura di questo album. Il disco ha risentito di queste influenze fino ad esserne riempito nelle parole, nei colori e più visceralmente nell’animo. “Il trucco di tre giorni prima ancora sul viso”. Questo è Daddy’s home per St. Vincent.

Down and out downtown” parte in assolvenza con un ritmo che ti porta tra le braccia del Joe Cocker di “Feelin’ alright”. Impossibile che non succeda, eccetto per dei rimandi di corde e sonori indiani. Tutti questi esperimenti in cui è abituata ad infilare le proprie parole e i propri accordi, però, stavolta hanno un territorio più storico, più familiare. È un po’ come se avesse preso un sottofondo musicale da un marciapiede newyorkese, influenzato sì dal presente, ma anche da decenni di sonorità che lì sono nate, passate, e a volte tornate.

La molleggiata title track “Daddy’s home” è talmente lenta ed appiccicata alle parole che ti prende per le spalle e ti spinge bonariamente in questo ballo un po’ zombie ed un po’ voodoo, da cui fuggi in ogni maniera ma che alla fine ti prende. Ciò che viene maggiormente fuori in questo episodio è la fusione di due mondi opposti: uno sporco e naturalmente vecchio, l’altro più attuale, profondo, vicino, che ti parla nell’orecchio ed è pungente. Ed ancora una volta è la voce di Annie a scavare il solco in quest’equilibrio e a piantarci la bandiera che si posa sulla vetta. È ciò che crea col suo avvento e che fa la differenza rispetto a tutto il resto, una voce filtrata e mescolata ad un suono che appare esageratamente fuori controllo.

Gli arrangiamenti, le finezze, come i rumori di dita sull’acustica della successiva e splendida “Live in the dream”, diventano scontati come scontata è la bellezza in chi si ama sullo scorrimento della puntina del tempo. La profondità di scambio che intercorre basta a se stessa e tiene in piedi la ragnatela di giochi e pensieri che di solito si continuano a cercare, talvolta in un ascolto che risulta troppo a lungo poco convincente o troppo legato allo schema del convincimento del voler darti un messaggio con dei mezzi, piuttosto che come fa la nostra signora, con la pasta vocale e con la somma delle sensazioni date da ogni particolare. Si ha proprio la sensazione che sia Annie Clarke per prima ad essere emozionata e rappresentata da questi suoni; me la immagino mentre ascolta la coda di questo brano con gli occhi chiusi e si trova in un luogo così bello e vivido da riuscire quasi a raggiungere qualcun’altro con quei sogni ad occhi aperti. E questo, oltre che la fine, è l’inizio di tutto il percorso di una musica.

La stilosa “The Melting of the sun”, meravigliosa nel suo sembrare priva di scheletro e destinata a frantumarsi, si regge in realtà su dei suoni cordosi, portati fino al punto in cui stanno per virare e diventare irrimediabilmente legnosi e privi di cuore. Il sound, come il video, è di livello altissimo. La musica arriva, sempre. Insieme alla nostalgia, compresa finalmente e osservata con mezzo sorriso che sfocia in un interludio.

Humming (Interlude I)” spezza a metà l’album e ci fa capire qualcosa, contestualizza in piena libertà, come il padrone di casa che ti ordina, con sottilissima spietatezza, la sedia in cui sederti. E tu ti fidi.

Quindi “The laughing man”, una sorta di omaggio in salsa americana e bluesy ad una ballad tipicamente british. Penso a “Creep” e chissà perché.

Down” parte in maniera minimale, esatta e talmente particolare da inchiodarti e costringerti al suo ritmo e alla sua dolce saturazione, che in bocca alla nostra sa di rossetto. Poi trova la propria dimensione e si sfoga in un ritmo che ricorda qualcosa del soul di Stevie Wonder, forse “Signed, sealed, delivered i’m yours!”.  Ma no, è proprio quel Joe Cocker che si era fatto spazio tra i rimandi iniziali a riproporsi, sì, è quello il punto d’incontro, il luogo sicuro da cui osservare questa porta aprirsi senza sentirsi totalmente all’oscuro. “Feelin’ alright”. Bello.

Il secondo interludio, oscuro e di passaggio, come se fosse un reverbero lasciato aperto dalla traccia precedente che ci eravamo lasciati sfuggire, come a dire che il sottofondo in quest’ambiente esterno è comunque scuro, aldilà del vestito che emerge.

Poi parte “Somebody like me”, che riesce ad emergere in un istante e a prendersi lo scettro di best track. Sarà il giro di accordi che è una rete da cui pare impossibile districarsi, sarà il rimando hippy di “San Francisco” o forse quello più attuale e riflessivo di Eddie Vedder di “Into the wild”. Ma gira tutto meravigliosamente bene.

My baby wants a baby” ad un primo ascolto mi risulta più distaccata dalle cose cui mi sono abituato, in primis mi ricorda un tentativo di arrivare ad un messaggio semplice e diretto, un po’ come fare un disco piano e voce e affidare al significato delle parole il peso di tutto. Solo che qui siamo immersi negli arrangiamenti e mi smarrisco un attimo sul finale.

Con “At the holiday party” torno a stare perfettamente bene e consapevole della profondità dell’ascolto. Mi sembra che prenda il bello delle produzioni belle e le riproponga come se fosse questo l’originale, la bella copia. Credo sia ancora merito dei piani sonori, dei tre, quattro mondi separati e ben decifrabili; la voce diretta, la chitarra acustica cruda che la supporta, il basso legnoso e tondo che si sposa con la frequenza bassa per non farti mancare ciò che serve là sotto, e le percussioni, o comunque tutto ciò che in questa canzone prende il ruolo di elemento leggero, quasi superfluo, ma anzi fondamentale a tenere serena e giocosa l’atmosfera.

Nella notturna “Candy Darling”, indossando le vesti di una ballad Tomwaitsiana dei tempi di Rain dogs, la nostra mette ancora un timbro sul luogo esatto in cui ci troviamo, ed è la strada, il marciapiede del sobborgo americano. Suona la musica che idealmente si sente all’interno di uno di quei locali, col particolare che riesce a farci vedere l’esterno semibuio e con qualche cartaccia per terra, più che il bancone e dei personaggi. C’è una distanza leggera in questo messaggio totale che invece si nutre di contatto, con la pelle, col passato e con quello scambio che sembra aver voluto mettere in piedi con questo disco, che spacca in due le aspettative lasciandoti con la sensazione di un terzo elemento in mano: una novità, per noi, ma anche per lei. Forse proprio il padre di nuovo vicino dopo molto tempo, o forse quell’interludio finale, il terzo, con cui chiude il disco, effettato e creato in maniera tale da essere fuori, all’esterno di un qualcosa e che sembra avermi letto nel pensiero giusto poche righe fa.


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