“Tutto è Storia: un piatto, un vestito, un mobile, un gioco, una parolaccia, anche una canzone. Una canzone secondo me è tanto più interessante in quanto riesce a essere testimone di un’epoca storica: che non vuol dire che deve essere pretenziosa, anzi! Certe canzoni sull’arrivo delle vacanze di massa in Italia, da “Abbronzatissima” a “Azzurro” passando per “Sapore di mare”, dicono in realtà allo storico sugli anni ’60 molto più che non certe inutili canzoni “impegnate” loro coeve”. (Maurizio Stefanini)
Esce per Edizioni Il Palindromo questo bellissimo libro scritto a due mani da Marco Zoppas e Maurizio Stefanini. Luminare della letteratura di Dylan e affini, studioso di quel che c’è dietro il fenomeno del complotto (il primo). Intellettuale, giornalista, esperto di politiche estere e poi, non meno di questo, anche musicista in una qualche misura e forma (il secondo). E non è tutto. Dal Nobel di Bob Dylan e dal fortunato libro di Zoppas intitolato “Ballando con Mr. D." che in qualche modo aveva previsto quel futuro che da Stoccolma avremmo conosciuto di lì a poco, si apre un mondo di connessioni tra cui questa: un bellissimo “documentario” che testimonia e rincorre con un piglio anche accademico le interminabili connessioni e le inevitabili contaminazioni tra la lingua scritta e quella cantata.
Si intitola “Da Omero al Rock. Quando la letteratura incontra la canzone”. Sono 300 pagine ricche, dense, colme e per niente obese di rimandi continui, di storia consumata dall’uomo e dalla sua arte, un viaggio che si dipana strada facendo, dal mito omerico a quello del Rock passando per le vicende politiche, per i pensatori del futuro, andando a visitare i romanzi più acclamati e le canzoni eterne, scoprendo nel sottosuolo come e quanto siano intense e talvolta inaspettate le reciproche contaminazioni di stile, di forma e di contenuto. Ho avuto modo di conoscere personalmente Marco Zoppas, abbiamo “giocato” ad analizzare e a rovistare fin dentro le ossa, le tesi personali che ognuno era in grado di giocarsi per demonizzare o celebrare il Nobel di Dylan, il quanto una canzone fosse o meno degna di venir celebrata come letteratura… e devo dire che l’incontro è stato prezioso, rigenerante, misura di quanto attento e importante sia questo libro. Ma ovviamente si è parlato anche di tanto altro perché questo non è un libro su Bob Dylan e ci tengo a sottolinearlo.
Simili letture sono salvifiche, restituiscono verità e realtà ad una bellezza che troppo spesso la fretta mediatica nasconde o, peggio ancora, non se ne cura affatto. Sono verità che in fondo hanno il malefico compito di restituire dimensione giusta e coerente alla genesi di opere che, immortali quali sono, abbiamo creduto composte di una sola farina, di un solo sacco, di una sola penna finendo per celebrare e mitizzare oltremisura il genio creativo di chicchessia… arte, questa, che sicuramente fa bene al mercato di massa, quello spiccio dell’ovvio e dell’immediato.
Dai miti classici passando per i griot delle tribù, arrivando alla canzone d’autore italiana e al rock mondiale. E poi sconfinando in Brasile con Vinicius De Moraes, Jobim e Toquinho oppure in Cile con gli Inti Illimani e i Quilapayún, dal folk americano di Dylan alle opere “berliniane” di David Bowie, e potrei continuare per righi e righi e righi, gettando sommariamente nel calderone Ungaretti e Houellebecq, Murakami e Saramago, Sergio Ortega e Italo Calvino. E solo a voler cantare i riferimenti, così in modo scenico, avrei ancora altri dieci articoli da riempire.
Tiriamo una linea di confine: “Da Omero al Rock” è un libro difficile da raccontare, forse appena più semplice da intervistare, di sicuro è una lettura interessante oltre che indispensabile per conoscere davvero ciò che un poco diventa coesione estetica e ispirazione intellettuale, che dopo ancora accade per osmosi e che solo alla fine, semplicemente e senza fare rumore, si produce in una magica e ineluttabile unicità: parliamo di questo eterno connubio tra letteratura e canzone.
Un grazie speciale a Marco Zoppas e a Maurizio Stefanini per il tempo che mi hanno dedicato e per aver ben sopportato le mie domande che, dal mio piccolo, hanno tentato di andar oltre il mero rigo estetico di un libro davvero importante. Per me che sono un cantautore poi…
Io vorrei partire dalle origini. Come avviene l’incontro tra un giornalista che si occupa anche di politiche estere e un professore di inglese, amante dei complotti e che ama talmente tanto Bob Dylan da prevederne il Nobel? Insomma, come si incontrano Maurizio Stefanini e Marco Zoppas?
Marco Zoppas - Presto detto. Maurizio, giornalista affermato, ha scritto una bella recensione del mio precedente libro su Bob Dylan prima dell’assegnazione del Nobel, quindi in tempi non sospetti. Poi c’è stato il Nobel e abbiamo cominciato a ragionare insieme sulle conseguenze di questo avvenimento.
Maurizio Stefanini - In realtà io sono appassionato di etnomusicologia da quando ero ragazzino. Sul tema ho una ricchissima collezione di dischi e equivalenti (fino agli mp3), libri, riviste e anche strumenti musicali, che suono con diversi esiti. La fisarmonica o l’armonica a bocca meglio. La chitarra e il flauto dolce un po’ più del minimo sindacale. L’organetto o il charango forse peggio, ma siccome non sono molto praticati faccio comunque effetto. Il pianoforte non troppo male tenendo conto che non lo ho mai studiato con un insegnante. Cornamusa scozzese, zampogna molisana e ciaramella confesso di avere problemi col tipo di respirazione che ci vorrebbe e che si dovrebbe apprendere da piccoli, ma comunque metto mani anche con quelle. È aneddotica personale, ma forse serve a correggere in modo decisivo l’immagine di quel “giornalista che si occupa di politiche estere”. In effetti io mi interesso di tutto ciò che a che fare con la variabilità delle culture umane: i sistemi politici comparati come le musiche etniche, le gastronomie, le storie o le letterature. Poi capita che si riesca a scrivere più di alcune cose che non di altre, ma tendenzialmente ogni volta che ne ho la possibilità lavoro a tutto campo. Dylan è stato un terreno di incontro per due motivi. Primo, è un cantante nato col folk – competenza mia- e passato al rock – competenza di Marco. Secondo: un particolare terreno di incontro tra i miei differenti interessi è la storia della canzone politica, e nel libro di Marco ho trovato espressa una tesi che è anche mia. Cioè, che Dylan è un cantante con fama di sinistra, senza esserlo. La pagina che ho scritto più che una vera recensione è stata dunque una sorta di saggio a quattro mani virtuali, in cui le tesi sue e le mie si intersecavano. Una specie di prova generale per il libro.
Voglio lanciare un primo spillo appuntito. Il vostro sottotitolo pare esplicito: Quando la Letteratura incontra la Canzone. Dunque, anche voi ne fate non solo una separazione di genesi e di natura, non solo ne distinguete l’essenza, ma addirittura pare che la seconda sia una evoluzione della prima. Pare, così com’è scritto, che la letteratura ad un tratto incontri la forma canzone. Concetto che in più parti del libro, in particolare proprio parlando dei griot e delle opere classiche di Omero e compagni, viene contraddetto. Anzi pare proprio essere l’esatto opposto…
Maurizio Stefanini - È esattamente come dire che italiano e francese all’origine sono la stessa cosa chiamata latino. Poi si diversificano, e ognuno influenza l’altro. Nel libro ricordiamo che l’opera lirica francese viene da quella italiana tramite Lully, che De Andrè porta in Italia un modello di canzone d’autore di derivazione letteraria ispirato a Brassens, che Hugo ha ispirato sia l’opera lirica di Verdi che quella rock di Cocciante. Fuori dal libro potremmo pure ricordare l’evidente parentela tra Verne e Salgari. Dov’è la contraddizione rispetto al ricordare che all’origine però non c’era distinzione tra francese e italiano e era tutto latino?
Voglio aprire un tema assai curioso che è ben trattato in questo lunghissimo libro. Molto molto interessante riscoprire assieme a voi come e quanto la musica non solo intervenga nella narrazione di alcuni romanzi, ma che arrivi proprio a divenire, in forma scritta, una colonna sonora dell’opera stessa. Ho capito per esempio che Murakami proprio non vi piace in questo senso…
Marco Zoppas - Murakami ha i suoi grandi pregi (non a caso era e rimane tra i candidati al Nobel) e i suoi difetti. A volte ci “marcia” assimilando elementi di cultura pop nella sua narrativa per renderla più accattivante e a me pare di capire che lo faccia quando è a corto di ispirazione. Per questo l’ho criticato ravvisando in lui un certo autocompiacimento. Ma poi ha delle intuizioni grandiose sia sullo smarrimento sia sulle infinite possibilità della nostra epoca. Murakami mi piace perché viene a dirci che i protagonisti dei suoi libri sono persone comuni come noi, che si trovano di fronte a problemi apparentemente insormontabili, ma poi alla fine ce la possono fare.
E invece parliamo di Houellebecq. Parliamo del celebre “Particelle elementari”. Parliamo anche dei fratelli Huxley. Permettetemi un parallelismo più metaforico che concettuale. Se penso alla mediaticità, alla fame di visibilità (divenuta droga e dipendenza), se penso al come fisicamente, spiritualmente e culturalmente impattiamo con la musica… che proprio la loro visione distopica (fantasiosa direi anche) di un “controllo genetico” per una totale rivoluzione dell’individuo sia l’unico modo per “salvare la musica”? Già Gianni Sassi nei primi anni ’70 pensava di rivoluzionare l’oggetto disco per dare una “genetica” diversa alla musica…
Marco Zoppas - Secondo la mia personale interpretazione Houellebecq, nelle “Particelle Elementari”, intravede nella mentalità della musica rock il culmine del suicidio senza fine dell’Occidente. La libertà sessuale e l’aprirsi delle porte della conoscenza tramite le esperienze psichedeliche conducono alla civiltà del tempo libero voluta dal mercato, in una continua ricerca del piacere. Houellebecq esplora il lato sinistro della “stagione dell’amore” e come unica salvezza propone addirittura l’eugenetica di Julian Huxley, cioè la creazione di una specie progredita di esseri umani non più legati agli istinti più bassi come quelli sessuali (che poi stanno spesso alla base di molta musica rock). Quindi io non penso che lo scopo di Houellebecq sia quello di salvare la musica. Almeno non la musica che piace a me, cioè il rock.
Maurizio Stefanini - Di Sassi confesso di non essere un grosso conoscitore. Parlando dell’intreccio tra musica, sessualità e psichedelia a me viene piuttosto da pensare a Mircea Eliade, e alla definizione dello sciamanesimo come tecnica arcaica dell’estasi. In realtà credo che in molte cose presenti e futuribili poi può rivivere l’arcaico, e viceversa.
Che poi restando su Houellebecq vorrei che ci spiegaste questa conclusione che tanto mi ha convinto: alla fine hanno vinto gli Hippy.
Marco Zoppas - A dirlo è un sarcastico Houellebecq. Nei suoi libri non ha alcuna nostalgia della tutt’altro che innocente vita di campagna. Niente è più politicamente scorretto delle sue sfuriate al veleno contro i mangiatori di carote biologiche e gli animalisti intransigenti visti come l’ultima incarnazione di quella che lui considera l’intolleranza dogmatica degli hippy. Ma Houellebecq va oltre. Secondo lui i riti satanici di un Charlie Manson non sono che la conseguenza naturale del connubio di sesso e rock’n’roll. Una volta esaurito il primo livello di godimento gli individui si sentono svincolati dagli obblighi morali, possono lanciarsi in riti orgiastici sempre più estremi e crudeli. L’attuale proliferare di sette e culti vari fino ai relativi coinvolgimenti politici oggi ben evidenti dimostra, a mio avviso, la longevità del modo di pensare degli hippy.
Una domanda per Stefanini: una domanda popolare che voglio venga presa non dal lato mediatico, né da quello un po’ scanzonato, ma cercando nel sottotesto il messaggio più importante e cioè la cultura e la curiosità del popolo che ascolta e che legge. Leggendo questo libro rinfresco la memoria e scopro che geni osannati come Faber in realtà devono molto, anzi moltissimo, ad altri colleghi italiani ed esteri e anche ad interi passaggi di opere letterarie. Insomma, se non crolla un mito poco ci manca… come si ridimensiona l’uomo e l’artista e come si ridimensiona anche il nostro sapere di quella determinata opera?
Maurizio Stefanini - Una certa antipatia per De Andrè in quanto responsabile di pasticci rispetto a cose che amiamo è un altro punto in comune tra me e Marco. Lui si arrabbia per certe traduzioni di Dylan; io per il modo in cui per tanti anni si è aggirato nella grammatica della musica etnica praticamente senza rendersene conto. Lui stava semplicemente emulando Brassens: come uno che pensa di emulare Branduardi senza rendersi conto che sta usando la grammatica della musica rinascimentale! Però De Andrè è comunque tra le cinque facce che sono finite nella copertina del libro. Credo che nessun ammiratore avrebbe potuto fare a De Andrè un omaggio maggiore di quello che gli abbiamo fatto mettendolo all’inizio di un certo percorso, pur essendone antipatizzante. E adesso gli faccio un omaggio ancora maggiore: era uno che copiava a tutto spiano, e le cui copie sono passate alla storia al posto degli originali. Chi ricorderebbe oggi “Dove vola l’avvoltoio” se il testo non fosse stato copiato dalla “Guerra di Piero”? Chi ricorderebbe “La mia morosa la va alla fonte” se la musica non fosse stata copiata da “Via del campo”? Insomma, De Andrè è come Shakespeare. Che pure copiò rigorosamente tutti i suoi soggetti: non ce ne è nessuno originale! Ma chi ricorderebbe la “Vita di Amleth” di Saxo Grammaticus, “Un capitano moro” di Giambattista Giraldi Cinzio o la “Giulietta e Romeo” di Matteo Bandello, se non fossero state appunto saccheggiate o trasfigurate dal Bardo?
E restando su questo tema: a conti fatti come si fa pace o come si spiega il quanto siamo stati poco curiosi e interessati sulla vera genesi delle canzoni?
Marco Zoppas - Il discorso De Andrè esula dalle mie competenze. Riguardo a Bob Dylan vorrei però dire che c’è un’attenzione ormai maniacale alla genesi delle sue canzoni. Un intero filone della sua discografia è dedicato ai bootleg, come non accade penso con nessun altro artista. Spesso e volentieri si scopre che ha attinto, copiato o rubato di qua e di là da una pletora di autori. Ma nella mia sensibilità ciò nulla toglie al valore delle sue composizioni. Bisogna anche saper rubare.
Maurizio Stefanini - La filologia consiste appunto nel ricostruire la genesi di un’opera. Non è necessaria per gustare un’opera d’arte, ma ne migliora la fruizione. Personalmente in me una certa passione filologica deriva da un approccio alla canzone che viene un po’ dall’etnomusicologia, un po’ dal mio interesse per la storiografia stile Annales. Tutto è Storia: un piatto, un vestito, un mobile, un gioco, una parolaccia, anche una canzone. Una canzone secondo me è tanto più interessante in quanto riesce a essere testimone di un’epoca storica: che non vuol dire che deve essere pretenziosa, anzi! Certe canzoni sull’arrivo delle vacanze di massa in Italia, da “Abbronzatissima” a “Azzurro” passando per “Sapore di mare”, dicono in realtà allo storico sugli anni ’60 molto più che non certe inutili canzoni “impegnate” loro coeve.
Ovviamente in questo lungo viaggio interpelliamo anche Dylan e il suo Nobel. Domanda spietata che vesto di romanticismo: quanto, secondo voi, la cultura di un individuo è dipendente dalla mediaticità dei contenuti? Ovvero sia, conosciamo Dylan o Houellebecq perché sono famosi o loro sono famosi perché noi li conosciamo? In altre parole ancora: se per motivi che oggi sono la prassi per tutti, le canzoni di Dylan non fossero state veicolate al grande pubblico, oggi gli sarebbe stato ugualmente assegnato il Nobel?
Marco Zoppas - Per me è giusto che la grande poesia sia veicolata al grande pubblico. Se sei un cantante vuoi cantare negli stadi, come diceva Freddy Mercury. Se sei un poeta vuoi che la maggior parte delle persone ti ascolti. Henry Miller lamentava che la figura del poeta fosse ormai giunta al capolinea se il poeta non parlava più a nome della società ma di se stesso. E che di conseguenza quella che una volta era la chiamata più alta e prestigiosa che ci fosse, si pensi a Virgilio o a Dante, nella società moderna appartenesse agli emarginati perché il poeta aveva smesso di credere nella sua missione divina e – diceva Miller – cantava stonato ormai da secoli. Ecco, io non sono d’accordo con Henry Miller perché considero gli artisti rock e rap i nuovi poeti che adempiono a quella chiamata alta e prestigiosa. So che potrei sbagliarmi ma ho sempre creduto in questo.
Maurizio Stefanini - Personalmente sono un feroce praticante di gusti culturali di nicchia, non solo musicali. Ma, appunto, sono gusti personali. Secondo me, chi ritiene che la grande poesia richieda pubblici ristretti non ha la benché minima idea di cosa rappresentavano alla loro epoca Eschilo, Sofocle, Euripide o il già citato Shakespeare. Milioni di persone vanno a visitare quella che viene presentata come la Casa di Giulietta a Verona, e che è pure un falso. Significa che Romeo e Giulietta è robaccia per le masse incolte?
E voglio restare su questo tema, che se da una parte mi sembra infantile dall’altra mi pare possa aprire nuovi spunti di riflessione. Come ad esempio: secondo voi un tempo in cui non c’era questa droga di dover apparire, girava più cultura nelle teste pensanti e nelle creazioni artistiche? Oggi invece che al 90% dei casi si deve pensare quasi solo alla forma estetica, siamo più - come dire - ignoranti in senso esteso e romantico del termine?
Marco Zoppas - Penso che i vari Bob Dylan, Mick Jagger e John Lennon fossero ossessionati dal look tanto quanto Bono Vox dopo di loro e Fedez oggi. Già l’accostamento dei nomi fa venire i brividi, no? Facciamoceli venire. Di mezzo c’è stata comunque l’intuizione di Andy Warhol sui 15 minuti di celebrità. Il fatto è che quelli di Dylan, Jagger e Lennon non sono stati 15 minuti. Durano da oltre mezzo secolo e dureranno sempre. Su Bono e Fedez parliamone.
Maurizio Stefanini - Ecco, Andy Warhol! Veniva da una etnia ultra-minoritaria della Slovacchia orientale che praticava una forma ultra-minoritaria di cattolicesimo di rito greco. Il padre era un minatore ma aveva la casa piena di icone, andava in una chiesa piena di icone, e la tradizione delle icone è essenziale per comprendere il tipo di trattamento cui sottopose le sue immagini. Dalle icone della cristianità orientale alle icone pop. Peraltro le sue immagini avevano una ricerca dell’essenzialità di tipo platonico, anche se venivano poi sottoposte a una elaborazione in serie di tipo fordista. Vogliamo dire che era un Platone fordista, o un Ford platonico? Peraltro, pure Oscar Wilde diceva che solo le persone superficiali non giudicano dall’apparenza, e i greci antichi parlavano di calokagathia. Anche qui, mi sembra che non ci siano modo di essere di una volta e modo di essere di oggi, ma alcuni schemi eterni che nel corso dei millenni si alternano.
Cito il disco del cantautore toscano Marco Cantini uscito di recente. Un concept album dal titolo “La febbre incendiaria” che narra e sviluppa con un suo occhio clinico e con una finissima canzone d’autore il romanzo “La Storia” di Elsa Morante. Anche noi di LOUDD ne abbiamo parlato. Ma cito anche l’amico e cantautore Francesco Costantini che nel 2016 con “Nel buio ad occhi aperti” cita “Cecità” di Saramago. Ci saranno sicuramente tanti altri progetti simili (e sono dovute le mie scuse nel non ricordarne al volo altri)… però penso anche che, a differenza degli anni ’60 o ’70, sia difficoltoso oggi riuscire a citare un qualche disco che citi o sviluppi opere letterarie… siete d’accordo anche voi? Secondo voi è un fenomeno che si sta esaurendo in ragione della scarsa cultura dei tempi moderni di cui accennavo sopra?
Marco Zoppas - Non so rispondere a questa domanda perché il mio studio approfondito su quella che abbiamo chiamato l’osmosi tra rock e letteratura si ferma ai mostri sacri dell’epoca d’oro anni sessanta/settanta. Io sono convinto che la commistione stia continuando, anzi aumentando ma non ho le prove. Il fatto è che quanto è stato creato allora rimane qualcosa di unico e irripetibile dal punto di vista letterario nella musica, non sto parlando di suoni. Finché non si verificherà qualcosa di così originale che sarà sotto gli occhi di tutti, tutti i tentativi di accomunare rock e letteratura rischiano di non essere altro che una nota a piè di pagina di quello che avevano creato i vari Beatles, Lou Reed, David Bowie e via dicendo.
Maurizio Stefanini - Il brano più letterario che abbia mai vinto a Sanremo è del 2017. Occidentali’s Karma di Gabbani. In assoluto, la canzone con il maggior numero di riferimenti letterari, filosofici, storici e anche scientifici di tutto il nostro libro. Anche Museica di Caparezza è un concept album che rientra in pieno nel nostro discorso. Nel libro abbiamo citato anche altre cose recenti. Certo, l’impressione è che non è che il meccanismo dei Talent tenda a privilegiare una ricerca di questo tipo. Ma forse abbiamo bisogno di prospettiva. Una prospettiva sugli anni ’50, ’60, ’70, ’80, forse anche ’90 ce la abbiamo. Su cose più recenti, temo di no.
Impossibile non chiedervelo, dunque preparatevi: sfogliate pagine letterarie e musicali di tutta Europa riuscendo a trovarne innumerevoli punti d’incontro, avete fatto un degno salto in America e in Inghilterra, inevitabili rimandi alla canzone politica dell’America Latina, Spagna e Portogallo non sono da meno, la Germania del dopo guerra e tantissimo altro ancora… però vi devo chiedere: cosa manca e cosa vi è sfuggito?
Marco Zoppas - Essendo maschietti ci è mancata la dovuta attenzione verso la componente femminile del rock e della letteratura. Essendo bianchi non abbiamo parlato sufficientemente di hip hop. Essendo cinquantenni non abbiamo parlato dei nuovi fenomeni. Abbiamo poi trascurato nomi che appartengono alla nostra generazione come Neil Young, Bruce Springsteen, Sting, i Roxy Music, il punk. Come potevano metterli tutti, dico a nostra discolpa?
Maurizio Stefanini - Come spiegato nel libro, è stata fatta una scelta precisa su ciò che arriva in Italia. Dunque, la canzone in italiano, in inglese e in spagnolo, essenzialmente, più qualcosa in francese e in portoghese. Il resto sostanzialmente non arriva, e quindi non potendo occuparci di tutto abbiamo fatto una selezione. Poi ci sono stati anche i limiti segnalati da Marco, ma non so se un profondo conoscitore di hip hop avrebbe potuto poi spaziare in altri campi che abbiamo affrontato, quindi direi che potremmo darne una definizione alla Churchill: il libro più incompleto che poteva essere scritto sul tema, eccettuati tutti gli altri. Dopo di che, per tutto il libro fino alla correzione di bozze abbiamo continuato ad aggiungere che avevano dimenticato, e di cui ci siamo ricordati all’improvviso. E mica roba minore: l’Inno a Roma di Puccini-Orazio lo abbiamo aggiunto in fase di bozze! Chiuse le quali, abbiamo iniziato a registrare altre dimenticanze di cui ci siamo ricordati troppo tardi. Rita Pavone nella colonna sonora di Gian Burrasca, ad esempio. O La canzone del capitano di DJ Francesco, per il filone Peter Pan. O la canzone di Venditti da Kundera. Ho già proposto di lanciare uno scherzoso concorso tra i lettori: “segnala cosa ci siamo scordati”.
Già in forno l’idea di ampliare quest’opera con tutto questo che manca?
Marco Zoppas - Per quanto mi riguarda no. A volte sono tentato. Sono rimasto piacevolmente sorpreso quando a Kendrick Lamar è stato assegnato il premio Pulitzer per la musica. Ma a me, se devo dirla tutta, Kendrick Lamar non piace molto. Nel senso che lo considero un genio ma la sua musica è troppo sofisticata per i miei gusti. Preferivo i vecchi artisti rap come Ice T o Run DMC. Sono quasi caduti nel dimenticatoio. A volte mi chiedo se ha un senso che mi metta a studiarmeli bene. C’è qualcosa nella vecchia semplicità che continua ad affascinarmi. In fondo ritengo tuttora John Lee Hooker il più grande chitarrista di tutti i tempi e so che sto dicendo una bestemmia per i puristi della tecnica.
Maurizio Stefanini - Se si facesse una nuova edizione, perché no? Ma, appunto, per aggiungere brevemente Gian Burrasca e Dj Francesco. Non per aprire nuovi capitoli sulla canzone russa o su quella cinese. Un’idea che mi stuzzica sarebbe però piuttosto quella di altri libri su nuovi tipo di percorso. Già nell’Introduzione ho abbozzato una proposta su canzone e arte. Ma si potrebbero fare canzoni e storia, canzoni e geografia, canzoni e ecologia, canzoni e sport. Proviamo ad esempio a immaginare un libro su canzoni e sport. Una vita da mediano, Che centrattacco del Quartetto Cetra, La leva calcistica di De Gregori, Hurricane di Dylan, Kung Fu Fighting, il Karatè e Para papà dello Zercchino d’oro, gli inni delle squadre di calcio, l’album di Dalla sulle Automobili e la canzone su Ayrton Senna, La partita di pallone di Rita Pavone… Ma smetto che vedo che sono già partito per la tangente.