Non saprei davvero cosa rispondere. Perché se da una parte parrebbe assurdo celebrare dischi così recenti, nella nostra prospettiva, è altrettanto vero che più si va avanti e più gli orizzonti si allargano, per cui potrebbe avere senso, nel momento in cui si esplora il passato, concentrarsi anche su periodi che non siano per forza i soliti “favolosi” Sessanta, Settanta e Ottanta.
Soprattutto per un aspetto, che sembrerà banale o autoreferenziale ma che non è per questo meno forte: noi che non siamo ancora così vecchi, in questi anni più recenti c'eravamo, le novità musicali che sono uscite le abbiamo davvero vissute, consumate, sono state parte di noi. Questo vale soprattutto per me, che (l’ho ripetuto fino alla nausea) nella mia adolescenza e in quasi tutta la mia giovinezza ho ascoltato solo Metal (in tutte le sue forme e derivati ma sempre di Metal si trattava) e quindi, nel momento in cui esplodevano certe cose, io ero altrove. La vivo male, questa cosa. Voglio dire, dopotutto in qualche strana forma sono un “giornalista” (volutamente tra virgolette) ed una delle più importanti esigenze di chi svolge questa attività dovrebbe essere vivere il presente, giusto?
Quindi forse è bello che, per una volta, io non debba raccontare il passato prendendo da quello che ho studiato sui libri, ma faccia riferimento ai miei ricordi, a quello che ho visto e assaporato in prima persona.
Ora, io non so che posto avranno gli Io?Drama nel momento in cui ci attingeremo a scrivere una storia critica e il più possibile esaustiva della scena italiana nel nuovo millennio.
Per la verità, un bravo giornalista come Riccardo De Stefano ci ha di recente provato (“Era Indie” è uscito per Arcana alla fine dello scorso anno ed è un'ottima lettura, ve la consiglio) e lui, in effetti, gli Io?Drama non li menziona. Non sono stati così influenti? Non è possibile catalogarli come “gruppo Indie”, visto che risentono in parte dell'onda lunga del rock alternativo dei Novanta? Non saprei, bisognerebbe chiederlo a lui.
Quel che posso dire io, al di là di ogni tentativo di analisi storica, è che oggi che “Da consumarsi entro la fine” compie dieci anni, ho sentito un forte, insopprimibile desiderio di fermarmi e di scriverci sopra due righe.
È stato un disco importante per me, prima ancora che per la musica italiana. E lo è stato per diversi motivi, la maggior parte dei quali difficilmente razionalizzabili.
Sicuramente c'è stato un impatto emotivo notevole, una cosa abbastanza vicina ad una epifania. Mi capita raramente, perché anche se quelli che mi conoscono direbbero di sicuro il contrario, normalmente vivo la musica in maniera molto razionale. Ascolto tanta roba, probabilmente troppa, e alla lunga è facile dire: “Bello questo!” e dimenticarsene un paio di giorni dopo. Dieci anni fa andò diversamente.
Era il 26 luglio 2010 (ho guardato su Internet, non preoccupatevi!) ed ero al Carroponte per vedere i Perturbazione, che avevano pubblicato da poco “Del nostro tempo rubato”. Li avevo visti il mese prima al Mi Ami, in un'edizione memorabile (la mia prima) dove c'erano anche i Virginiana Miller e dove me ne ero andato via giusto prima che iniziassero i Tre Allegri Ragazzi Morti, che erano headliner di quella sera.
Comunque sia, in apertura c'era questo gruppo milanese, che uno degli amici con cui ero conosceva già, di cui era uscito da non molto il secondo disco.
Il loro concerto mi folgorò. A colpirmi, al di là di una band solida, di un impatto live travolgente e di un frontman, Fabrizio Pollio, capace di conquistarsi un pubblico che non era in gran parte lì per loro, furono le canzoni. Non è facile che dei pezzi ascoltati per la prima volta in concerto riescano a colpirmi, non mi è successo quasi mai e, non a caso, una delle pochissime volte accadde durante la mia adolescenza coi Fates Warning, che non sono certo un nome da poco.
Nel caso degli Io?Drama, mi fu evidente che avessero le canzoni. Dal punto di vista melodico soprattutto, perché l'impianto generale, pur all'interno di un contesto che rimandava pesantemente agli anni ‘90, aveva una leggerezza Pop ed una certa dimensione cantautorale che donava loro un non ben definito carisma, un magnetismo che non poteva non tenerti incollato. Successe in particolare con “Nel naufragio”, una ballata acustica e profondamente triste, con un testo a sfondo sociale che però non scadeva mai nella retorica, tenendo sempre ben presente la dimensione umana. Una roba potentissima. Nei mesi e negli anni seguenti l'avrei ascoltata centinaia di volte, in macchina, a casa, in concerto, ma l'impatto che ebbe su di me quella prima esecuzione non riuscirò più a togliermelo di dosso.
Terminato anche il set dei Perturbazione, incontrammo la band, approfittando del fatto che il mio amico li conosceva piuttosto bene, e chiacchierammo a lungo con loro. Comprai entrambi i dischi, me li feci autografare ma la cosa finì lì, visto che in quel periodo avevo da poco smesso di scrivere di Metal e non ero al momento intenzionato a riprendere nessun tipo di attività.
Il loro tour comunque era appena agli inizi per cui da lì in avanti ebbi parecchie occasioni per rivederli. Andai a sentirli praticamente ogni volta che venivano in zona, sia da headliner, sia quando erano in compagnia di altri act (fecero un'altra data coi Perturbazione, in una Legnano che all'epoca ospitava ancora concerti, li vidi un paio di volte assieme a Giorgio Canali ed anche in una stupenda esibizione acustica con tutti i brani riarrangiati, in apertura a Massimo Priviero all'Auditorium di Largo Mahler) e finii anche nel video di “Auto Aut Aut”, che venne girato in quella splendida venue che era Palazzo Granaio a Settimo Milanese, oggi purtroppo defunto come molti altri posti.
“Da consumarsi entro la fine” ha rappresentato una svolta nel percorso artistico del gruppo: se “Nient'altro che madrigali” era ancora fortemente legato ad un Alternative rock declinato alla maniera di Afterhours e Marlene Kuntz, questo follow up incamerava molti più elementi, smarcandosi in parte dai modelli precedenti ed abbracciando una dimensione più vicina al Pop e al cantautorato.
Lo si capisce dall'impronta sonora, dove il violino è più spesso protagonista e dove le chitarre acustiche partecipano al tessuto ritmico, fondendosi con le elettriche.
È un lavoro che si muoveva al di là delle barriere e delle etichette, come se finalmente il gruppo fosse riuscito a convogliare le sue numerose e disparate influenze (la prima volta che ho intervistato Fabrizio sono venuti fuori nomi che andavano dai Velvet Underground ai Radiohead, passando per Doors ed Einstürzende Neubauten, senza tralasciare una grandissima passione per De André) in un prodotto che non assomigliava a nulla di quello che all'epoca andava per la maggiore.
Il tutto, con una scrittura forte, che si destreggia con disinvoltura tra episodi più spinti e distorti (“Din Din delirio” e “Auto Aut Aut” sono due pezzi fantastici, che dal vivo scatenavano sempre pogo e singalong a livello massiccio), ballate intense e commoventi (“Preghiera agnostica” ma soprattutto “Nel naufragio”, della quale ho già detto e che, l’ho scritto parecchie volte, considero una delle canzoni italiane più belle del decennio), numeri Pop d'alta scuola (“Musabella” in particolare, divenuta un vero e proprio momento topico dei live ma anche “Saverio” e “Fosse stanotte l’ultima” sono due pezzi importanti) e notevoli prosecuzioni sul terreno più sperimentale e rumoristico intrapreso nel primo lavoro (“Dafne in tangenziale” ma soprattutto “Gli ultimi versacci di Gregor Samsa”, che avrebbe in un certo senso anticipato parte del corso che avrebbero seguito col disco successivo).
Spesso si dice che nell'arte, e nella musica a maggior ragione, uno dei fattori più importante è il tempismo e probabilmente gli Io?Drama non lo ebbero dalla loro. Per quasi due anni girarono l’Italia in lungo e in largo, ottenendo un successo di pubblico discreto, compresi due show importanti e molto partecipati all'Alcatraz e al Carroponte, quest’ultimo per salutare il chitarrista Fabrizio Vercellino, che aveva deciso di abbandonare il gruppo.
Non fecero il botto ma forse avrebbero potuto, se le cose fossero girate in maniera differente. La verità è che sempre nel 2010 uscì “Il sorprendente album d'esordio de I Cani” e da lì in avanti il mondo della musica indipendente italiana sarebbe stato completamente messo sotto sopra. Gli Io?Drama erano troppo diversi e non poterono beneficiare in alcun modo di quello che sarebbe accaduto. Forse, se avessero deciso di continuare sulla stessa linea, avrebbero intercettato quella fetta di pubblico che pareva sempre più assetata di canzoni da cantare a squarciagola e che sarebbe più tardi divenuta preponderante con l'esplosione di Calcutta.
Ma gli Io?Drama, per fortuna, non erano Calcutta e neppure I Cani. Realizzarono un altro disco, “Non resta che perdersi” (in precedenza era uscito “Mortepolitana”, un Ep che però era più di transizione o di conclusione della fase precedente), prodotto da Niccolò Fragile ed in più punti debitore a sonorità elettroniche, quasi EDM, oltre che ad una vena più spiccata di sperimentazione. Un disco scuro, nel complesso più ostico e meno accessibile, privo di vere e proprie “killer song” che potessero sfondare le classifiche. Era il 2014 e c’era già Spotify, le dinamiche cominciavano a cambiare e loro, per motivi che non è ovviamente possibile decifrare del tutto, rimasero tagliati fuori. Fecero meno concerti, ricordo che non riuscii a vederli così tanto come prima. Ci fu una bellissima data all'Alcatraz per concludere il tour e anche se all'epoca nessuno parlava di fine e neppure se ne poteva avere qualche sentore (io stesso scrissi il report di quella serata e non feci nessun tipo di previsione) col senno di poi qualcosa si sarebbe potuto indovinare.
Al momento la band non è morta, semplicemente congelata. Fabrizio Pollio ha esordito come solista nel 2016 e ha poi avuto un bel riscontro col suo progetto “De André 2.0”, tanto che i lavori per un successore stanno andando per le lunghe. Tutto quello che succederà da adesso in avanti farà parte di un'altra storia, anche perché la pandemia ancora in corso ridisegnerà per forza anche gli scenari della musica e potrebbe essere che carriere artistiche come quelle a cui eravamo abituati non ci saranno più.
Questo pezzo voleva solo essere un invito a riscoprire un disco che non finirà probabilmente sui libri di storia ma che è entrato indelebilmente nelle vite di coloro che lo hanno incontrato. Un disco che, a dieci anni di distanza, suona ancora molto attuale: forse un po’ meno nei suoni ma tantissimo nei testi, perché anche nel mutare delle circostanze storiche, le istanze di verità e libertà che Fabrizio cantava in quelle canzoni, rimangono più vive che mai.
Sarebbe bello tornare ad urlarle tutte sotto al palco, anche solo per una volta.