Fa senza dubbio piacere constatare quanto la stella di Curtis Harding sia in ascesa anche da noi. Il suo ultimo passaggio in Italia, ai tempi del tour di Face Your Fear, non aveva visto una grande partecipazione di pubblico, al punto che a lui e alla band era stato riservato lo stage piccolo all’interno del Magnolia, limitando visibilità e fruizione in maniera consistente.
A questo giro le cose stanno diversamente: siamo al Biko, uno dei pochi locali storici di Milano ad aver resistito alla crisi degli ultimi due anni, e la data è sold out da mesi. Vero che sono stati venduti meno biglietti in ottemperanza alle norme vigenti, vero che la venue non è esattamente un miracolo di spaziosità, ma è comunque un risultato superiore a quello di cinque anni fa.
L’artista di Atlanta ha subito come tutti i suoi colleghi il contraccolpo della pandemia: aveva il nuovo disco pronto già a fine 2019 ma al sopraggiungere del primo lockdown ha deciso di congelare il tutto in attesa di tempi migliori. La storia è la solita: ha riascoltato quanto fatto, non si è trovato contento, ha deciso di rifare tutto.
If Words Were Flowers, terzo capitolo della sua discografia, l’ha prodotto assieme a Sam Cohen ed è complessivamente un lavoro più tranquillo del precedente, anche più classico nei suoni e negli arrangiamenti (d’altronde Face Your Fear aveva Danger Mouse dietro al banco di regia), una sorta di tributo alle radici del Soul, piuttosto che quella proposta contaminata che lui stesso aveva battezzato “Slop”.
All’interno del locale l’atmosfera è tranquilla ma il senso di attesa è palpabile, non aver potuto riempirlo al massimo della capienza rende il tutto molto più fruibile, anche se per il momento la gioia di potersi gustare un concerto alla vecchia maniera ha la meglio sui disagi da sopportare.
Il palco è decorato di fiori (finti) in onore al titolo del disco, non c’è supporto e alle 22 in punto Curtis e la band prendono possesso del piccolo stage. È la vecchia “Drive” ad aprire le danze, con la title track dell’ultimo lavoro a quanto pare sparita dalle scalette. In tutto sono in cinque e rispetto all’ultima volta sono cambiati un po’ gli assetti: alla batteria c’è sempre Michael Villiers, mentre alla chitarra è subentrato Tyler Morris, al basso Aaron Stern e alla tastiera e al sax Jeremy Gill, che ha suonato su alcune tracce del disco e che lavora principalmente nel campo della musica classica.
Saranno i nuovi innesti, sarà la naturale confidenza che si acquista concerto dopo concerto, fatto sta che la resa live di Curtis Harding appare decisamente migliore rispetto alla prima volta che l’avevo visto. La sua prestazione vocale è precisa e priva di sbavature, dal vivo anzi le sue potenzialità emergono molto di più, in passato mi era sembrato un po’ sacrificato. Non ha rinunciato ai proverbiali occhiali da sole (non li toglierà mai) ma sembra nel complesso più sciolto, più a suo agio nell’interazione col pubblico: parla poco ma a tratti scherza e rivolge qualche battuta, a fine concerto oltretutto lo abbiamo visto bello tranquillo in mezzo a gente che gli faceva i complimenti e gli dava pacche sulla schiena.
La band è indubbiamente un ingrediente importante, con Morris impeccabile nel tocco chitarristico, a tratti anche tamarro nel prodursi in assoli decisamente old school ma molto efficaci. Sezione ritmica che va come un martello pneumatico, garantendo tiro e groove in abbondanza, sia nei brani più up tempo sia in quelli ad alto tasso di sentimento. Aaron Stern in particolare è una vera forza della natura, il suo stile defilato e quasi indifferente è inversamente proporzionale alla potenza che sprigiona.
Discorso un po’ diverso per Gill, fondamentale col suo sax ad impreziosire soprattutto gli episodi dell’ultimo disco (che sono quelli più infarciti di fiati) ma un po’ sacrificato alle tastiere, che non sempre escono come dovrebbero. C’è da dire che comunque la resa sonora del Biko si è dimostrata impeccabile: anche dalla prima fila, dov’era posizionato io, arrivava tutto nitido e preciso, cosa che ha ovviamente contribuito a rendere lo show godibile dall’inizio alla fine.
C’è stato un piccolo inconveniente tecnico a circa mezz’ora dall’inizio, con Tyler Morris che ha rotto una corda della sua chitarra e ha dovuto prendere in prestito quella di Curtis, che ha così dovuto modificare in parte la scaletta, per eseguire subito quelle canzoni che non prevedevano che lui suonasse. La band evidentemente viaggiava senza roadie (l’unica persona che ha fatto avanti e indietro dal palco prima dell’inizio si è rivelato essere il fonico) ragion per cui nessuno ha pensato di sostituire la corda incriminata. Non è stato comunque un gran problema: i brani hanno funzionato anche con una chitarra sola e c’era comunque a disposizione una chitarra acustica per gli episodi più “delicati” (vedi “Ghost of You”). Ad un certo punto Tyler ha realizzato di avere una chitarra di riserva nascosta ai lati dello stage, impilata in mezzo alla roba del gruppo. L’ha tirata fuori e tutto è ripreso come prima, un episodio che gestito con grande rilassatezza e ironia da parte di tutti.
Per il resto, poco da segnalare. Set da un’ora e mezza abbondante (l’altra volta era durato poco meno di un’ora) con un corposo numero di canzoni tratte in egual numero da tutti e tre i dischi. La qualità del repertorio la conosciamo, è superfluo dire che è stato tutto splendido e che il pubblico ha partecipato con grande entusiasmo, soprattutto sugli episodi più incendiari.
Alcuni brani di “Face your Fear” sono ormai dei classici, i boati all’attacco delle varie “Need My Baby”, “Till The End”, “Wednesday Morning Atonement”, “On and On” e soprattutto “Need Your Love” (quest’ultima ha chiuso il set principale) lo hanno ampiamente dimostrato.
Molto bene anche le canzoni del nuovo album, anche se, con l’eccezione del clamoroso singolo “Hopeful”, l’impressione è che avrebbero dovuto essere eseguite con un ensemble più ampio per poter rendere appieno. Resta il fatto che “With You”, “The One” e “I Won’t Let You Down”, per citarne alcune, hanno comunque fatto la loro porca figura.
I bis sono stati anch’essi ad alto tasso di energia, con il classico della prima ora “Keep On Shining” ed “As I Am”, con Curtis che ha salutato tutti ed è andato a fumare, lasciando sul palco la band a godersi per qualche minuto il finale.
Speriamo che sia solo l’inizio di una lunga serie di live. Ne hanno bisogno gli artisti, ne ha bisogno il pubblico.
Photo courtesy: Lino Brunetti