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REVIEWSLE RECENSIONI
01/10/2018
Happy.
Cult Classic
10 tracce per 31 minuti di spensieratezza pop-punk. Per chi è orfano dei Blink 182 di fine anni ’90 e dei Simple Plan degli anni ‘10, per chi ha apprezzato i WSTR. Il loro nome richiama il loro obiettivo: Happy. e il loro album di debutto è già una dichiarazione di intenti: Cult Classic.

Se siete cresciuti con i Blink 182 e i Green Day o magari con i Simple Plan, capirete il motivo per cui questi quattro ragazzi della Columbia, nel South Carolina, per il loro album di debutto abbiano pensato a realizzare quello che è, nella sostanza, un tributo al pop-punk.

Cult Classic ha un po’ tutto quello che un fan del genere vorrebbe avere da un disco: melodie, armonie, un po’ di chitarre, una bella voce pulita capace di rendere sia in un pezzo catchy sia in uno nostalgico. Orecchiabile ma con gusto, leggero e spensierato ma con qualche puntatina più lenta ogni tanto.

Peccato però che gli Happy. potrebbero fare molto di più ed essere molto di più dell’ennesima giovane band che tenta il successo nel pop-punk.

Il disco si apre con “How To Lose A Girl in 1.45”, una traccia perfetta per i fan dei Green Day. Richiama le sonorità del famoso trio e ci si aspetta quasi che a cantare arrivi Billie Joe, ma fa capire che a guidare la composizione degli Happy. ci sia molto gusto. Un inizio delicato e in sordina che esplode in un bel pop-punk energico, che fa venire subito voglia di arrivare al pezzo successivo.

Una voglia ben ricompensata, perché alla traccia successiva troviamo il singolo “Don’t Overdose and Drive”, una canzone ben strutturata, con dei bei cori, delle belle chitarre, e la bella voce di Tate Logan. Perfetta per qualsiasi occasione di stacco o per chi vuole regalare alle proprie giornate ancora qualche minuto d’estate.

Carichi e speranzosi si arriva alla successiva “Winona Ryder” e al nuovo singolo “I Call Shotgun” che, se tralasciando i testi poco significativi, confermano l’ottimo orecchio che i ragazzi hanno nella costruzione di canzoni orecchiabili e radio-friendly, ben costruite e pensate per l’ascoltatore medio del genere.

Dalla quinta traccia in poi, però, iniziano gli scricchiolii della mediocrità. Con “Drowners” ricordarsi dei Blink e dei Simple Plan è un attimo, e si presenta un bell’assolo di chitarra nella seconda metà della canzone, che però non si capisce che senso abbia rispetto al resto. Con “Lucky” si iniziano a rallentare i ritmi. Gli umori sono quelli di chi si abbandona ai contorni nostalgici di un’estate assolata, alle speranze di una gita in compagnia e ai colori seppia di una foto scattata alle partite di pallavolo sulla spiaggia di una vacanza appena finita. Con “With a Y” si continua con i toni mid-tempo del pop-punk più vicino alle note più emozionali e si tenta di far entrare delle chitarre in una struttura musicale organizzata con meno maestria delle precedenti.

Arrivati a “Fishtank” si recupera una maggiore ironia nel cantato e uno sprint nell’uso della strumentazione a disposizione, ma sono solo brevi parentesi in una canzone che ha molto del già sentito.

“Wonder” è il lento del disco e, fatta salva la reazione dei fan dei lenti pop-punk, a tutti gli altri non fa altro che venire voglia di saltare la traccia.

Arrivati all’ultima “Were The Wild Things Were”, il ritorno ad un bpm più veloce è una boccata d’aria fresca e si intravedono di nuovo le potenzialità creative della band: se, parafrasando il titolo, “è qui che ci sono le cose più selvagge”, è in questa direzione che i quattro ragazzi dovrebbero dirigersi.

Più si ascolta, più Cult Classic è un album che non si può certo dire brutto. Appare però un timido e forse frettoloso tentativo di unirsi al grande calderone del pop-punk. Formatisi solo nel 2016, avendo già rilasciato un EP di discreto successo (The Endless Bummer) e diffondendo già da mesi i singoli tratti da quest’ album di debutto, si può comprendere come questi giovani e allegri ragazzi non vedano l’ora di avere uno spazio nella scena e un loro pubblico. La strada del pop-punk è già lastricata di gruppi simili, e questo è giusto che non sia né un demerito, né un’inibizione, ma diventa un monito da tenere ben presente nel momento in cui ci si rende conto che gli Happy. potrebbero essere in realtà molto di più. Sono giovani, simpatici, sanno suonare, hanno il senso della hit e hanno delle ottime idee su come poter comporre un bel pezzo, ma dovrebbero darsi il tempo di sfoltire i richiami troppo evidenti a chi ha governato il pop-punk mainstream prima di loro, di migliorare il livello di scrittura dei testi e di trovare la cifra della loro unicità. Un’identità che al momento si può ben intuire da qualche bel singolo o da qualche bel passaggio, ma che non è ancora completamente a fuoco.

Al momento è un buon inizio, che tasta con entusiasmo il terreno ma che risulta ancora poco innovativo. Ma una volta lasciati crescere i semi che stanno piantando, se gli Happy. li irrigheranno e li concimeranno con un po’ di pazienza, potremmo vedere in questo piccolo germoglio le potenzialità di una bellissima pianta.