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REVIEWSLE RECENSIONI
02/11/2019
Cigarette After Sex
Cry
Io non dovrei parlare perché li ho sempre difesi quando pressoché chiunque vantasse una cultura musicale anche di poco superiore alla media li attaccava con ironia feroce un giorno sì e un giorno no. Però, quando finisci in un improbabile take away cinese di terza categoria, con una loro playlist a volume da inquinamento sonoro in (si fa per dire) sottofondo, capisci che forse la diga si è rotta e che bisogna fare un po’ d’ordine.

I Cigarettes After Sex sono uno dei più grandi misteri della storia della musica. In realtà me lo disse anche il cantante e compositore principale Greg Gonzalez, quando ebbi modo di intervistarlo, un paio di anni fa. Disse sostanzialmente che neppure lui si spiegava il loro successo, che ha sempre scritto canzoni senza troppo variare la formula e che, da un giorno all’altro, senza nessuna ragione plausibile, il singolo “Nothing’s Gonna Hurt You Baby” è esploso e tutti hanno iniziato a parlare di loro.

In effetti è una vicenda interessante, per quanto appunto senza senso. Quando uscì “I”, l’ep che conteneva il brano in questione, sull’onda dell’entusiasmo, recuperai il disco che avevano fatto nel 2011, quello che se oggi andate su Wikipedia è indicato come “demotape” ed è autointitolato, anche se la sigla “Romans 13:9” che campeggiava in copertina può essere considerata una sorta di titolo.

Comunque, quel disco per il mondo non esisteva. Io ce l’avevo, la musica che vi era incisa era pressoché identica a quella che stava facendo impazzire le masse in quelle settimane, eppure tutti giuravano e spergiuravano si trattasse di un gruppo ai propri esordi.

La verità è che, molto semplicemente, fino a quel momento non se li era mai cagati nessuno. Ma non è che quel singolo incriminato fosse meglio, anzi. Era sempre la stessa roba, solo che improvvisamente c’erano parecchie migliaia di persone che giuravano fosse un capolavoro.

Allora, io non dovrei parlare perché li ho sempre difesi quando pressoché chiunque vantasse una cultura musicale anche di poco superiore alla media li attaccava con ironia feroce un giorno sì e un giorno no. Però, quando finisci in un improbabile take away cinese di terza categoria, con una loro playlist a volume da inquinamento sonoro in (si fa per dire) sottofondo, capisci che forse la diga si è rotta e che bisogna fare un po’ d’ordine.

Ora, appunto. Io personalmente non ho nulla contro il quartetto di El Paso. La loro musica mi è sembrata da subito molto comunicativa; loro, per quel poco che ho avuto modo di conoscerli, mi sono parsi dei ragazzi simpatici e posati, all’epoca anche un po’ autoironici sul clamore mediatico che stavano suscitando. Senza dubbio non stiamo parlando di fenomeni e soprattutto dal vivo emergono un po’ i limiti dati dalla scarsa versatilità. Ma mentre in tanti si scatenavano in battute su quanto fossero soporiferi, io mi vedevo un paio di loro concerti e ne uscivo tutto sommato soddisfatto.

Ora che sono usciti con quello che è di fatto il loro terzo disco, però, sento il bisogno di riequilibrare un po’ le valutazioni. I Cigarettes After Sex sono bravi ma hanno un’unica freccia al loro arco. Sanno scrivere canzoni leggere, minimali negli arrangiamenti, sognanti nelle melodie e nelle atmosfere. La voce di Gonzalez è particolarissima, timbro quasi femminile e decisamente espressiva, per quanto si muova sempre sulla stessa gamma di tonalità. Le atmosfere che sanno evocare, spesso frutto di un tappeto di tastiere leggero e di chitarre arpeggiate, sono sempre molto suggestive e, pur nell’uniformità della loro scrittura, ogni tanto hanno azzeccato qualche pezzo superiore alla media.

Il problema è che sulla lunga distanza una formula del genere stanca per forza, a meno che non siate ascoltatori di ristrette vedute oppure membri del loro fan club ufficiale.

“Cry” è essenzialmente un buon disco che però presenta uno dopo l’altro tutti i loro cliché, talmente immobile stilisticamente e a livello di produzione che sarebbe assolutamente impossibile dire quale sia venuto prima, se questo o quello di due anni fa (che si intitolava molto sobriamente “Cigarettes After Sex”). Unica variazione immediata, la copertina, che ha abbandonato il nero per un più sobrio grigio (sempre tinte molto allegre, comunque).

Per il resto, è il solito lotto di canzoni piene di nostalgia e malinconia, dichiarazioni d’amore sussurrate o lamenti di lontananza a lume di candela, tutto riletto con gli strumenti di un Pop immediato, per quanto rallentato nel ritmo e scarno negli arrangiamenti. Già, perché forse la ragione per cui i puristi storcono il naso è proprio questa: le stesse emozioni, lo stesso linguaggio, ve lo possono dare generi come lo Slowcore o il Dream Pop, ma capirete che nomi come Low o Beach House (giusto per citare gente conosciuta) non sono neppure minimamente accostabili al loro.

Questa è musica per palati facili ed il trittico iniziale di “Don’t Let Me Go”, “Kiss It Off Me” e “Heavenly”, che mostra un tentativo quasi inedito di puntare l’accento sulla dimensione catchy dei ritornelli, lo chiarisce una volta per tutte.

Il problema non è questo, comunque. Può essere solo un merito, quello di essere arrivati a così tante persone in pochi anni, andando oltretutto ad occupare spazi normalmente riservati ad una fruizione mordi e fuggi della musica. La questione, semmai, è che a continuare a scrivere la stessa canzone all’infinito, si ottiene come unico risultato quello di fornire pretesti ai propri detrattori.

A parte questo, “Cry” coglie nel segno e si merita la sufficienza piena. Ovviamente, essendo così tanto prevedibile, è impossibile che si vada più in là di questo. Tornerò comunque a vederli dal vivo: saranno pure soporiferi ma li ho sempre trovati suggestivi.


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