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REVIEWSLE RECENSIONI
09/04/2025
Manic Street Preachers
Critical Thinking
Con “Critical Thinking” i Manic Street Preachers dimostrano ancora una volta la loro capacità di evolversi, mantenendo comunque un’identità forte. Esplorando il contrasto tra opposti e combinando melodie luminose con testi cupi, affrontano il declino sociale con la consueta dose di intelligenza e introspezione.

I Manic Street Preachers sono sempre stati una band dal fascino molto specifico, tanto che fuori dal Regno Unito hanno raccolto molto meno di quanto avrebbero meritato. Non è stata tanto la loro musica a limitarne l’impatto internazionale, quanto piuttosto la loro attitudine e i loro testi, fortemente radicati nel contesto politico e culturale britannico. Una band dedita agli slogan e al commento sociopolitico risulta fuori posto senza una conoscenza approfondita della realtà che l’ha generata e del periodo storico in cui si muove. La loro identità, profondamente legata alle tensioni e ai paradossi della società britannica, ha fatto sì che il loro messaggio trovasse piena risonanza solo entro i confini nazionali.

 

Dopo oltre tre decenni di carriera, i Manic Street Preachers non hanno mai smesso di interrogarsi su sé stessi e sul mondo che li circonda. Critical Thinking, quindicesimo album in studio della band gallese, è una riflessione su una modernità in crisi, un’opera che esamina la collisione tra opposti: melodie luminose e testi cupi, speranza e disillusione, nostalgia e resilienza. Se gli ultimi lavori del gruppo hanno seguito un percorso più raffinato e malinconico, questo nuovo capitolo non rappresenta una rivoluzione, ma piuttosto un ulteriore perfezionamento di quella dialettica interna che da sempre definisce la loro musica.

 

L’album si apre con la title track, un brano che spariglia subito le carte: è quella di Nicky Wire, storico bassista e principale paroliere della band, la prima voce che sentiamo, intenta a lanciare un attacco tagliente alla wellness culture e alle illusioni del pensiero positivo. L’approccio musicale è teso e nervoso, con una marcata influenza post punk che richiama i Gang of Four, con Wire intento a declamare i versi come farebbe Jon King, con un misto di cinismo e rabbia trattenuta. È una scelta audace, che si distacca dall’eleganza melodica di un album come l’ultimo The Ultra Vivid Lament e si avvicina alla cruda energia di un capolavoro come The Holy Bible ma anche del più recente Futurology.

 

Dal secondo brano in poi, l’album torna su territori più familiari, facendosi più accessibile ma senza perdere incisività. “Decline and Fall”, primo singolo estratto, è una cavalcata sonora che campiona “Cool for Cats” degli Squeeze e fonde il classicismo pop dei Simple Minds con la grandeur epica tipica dei Manics. La melodia è immediata, il ritornello esplosivo, eppure il testo racconta di una società in declino e di un senso di spaesamento generazionale che risuona in ogni strofa. In maniera simile, la successiva “Brushstrokes of Reunion” riprende il sound degli U2 di War e lo inserisce in un contesto più malinconico, con un testo che riflette sull’inevitabilità del tempo che passa.

 

Uno dei momenti centrali dell’album è “Dear Stephen”, un omaggio dolceamaro a Morrissey, figura che ha profondamente influenzato la band ma la cui traiettoria personale e ideologica ha lasciato un senso di smarrimento tra i suoi ex seguaci (anche se Wire ci ha tenuto a precisare che: «L’unica cosa che attacco in questo disco è me stesso»). Il brano è costruito su arpeggi jangle pop che evocano la produzione degli Smiths, mentre il testo si interroga su come separare l’arte dall’artista («I’m still a prisoner to you and Larkin, even as your history darkens»), mentre la domanda «Has the world changed or have I changed?», tratta da The Queen Is Dead, aleggia sull’intero album. Wire usa la parabola di Morrissey e il suo spostamento verso posizioni di estrema destra come misura della distanza tra il XX e il XXI secolo, un tema presente anche nella title track, dove il bassista rifiuta con forza il linguaggio dell’autoaiuto («Fuck that!»).

 

Ma gli argomenti importanti trattati dai Manic Street Preachers nel corso dell’album sono anche tanti altri. “Deleted Scenes”, per esempio, affronta il tema della cancellazione culturale con ironia sottile e una melodia che richiama il britpop più raffinato. Qui la band gioca con la dualità tra ciò che viene ricordato e ciò che viene dimenticato, tra il giudizio pubblico e la memoria privata. “Being Baptised” è invece uno dei pezzi più malinconici del disco, con un’intensa interpretazione vocale di James Dean Bradfield e un arrangiamento dal sapore cinematografico che riporta alla mente gli anni Settanta. La canzone, nata dall’incontro di Bradfield con Allen Toussaint in un episodio di Songwriters’ Circle (andato in onda sulla BBC nel 2011), sembra suggerire una rinascita spirituale attraverso il ricordo e l’esperienza. “People Ruin Paintings”, invece, riflette su come l’osservazione eccessiva possa distruggere l’essenza stessa di ciò che si ama, una metafora della cultura contemporanea che consuma e svuota di significato l’arte e la musica.

 

Sul piano musicale, Critical Thinking mantiene la tradizione della band di bilanciare sperimentazione e riconoscibilità, un aspetto che ha sempre fatto sembrare i Manics più maturi della loro età, fin dalla fine degli anni Novanta (vedi This Is My Truth Tell Me Yours). Come già detto, il sound di chitarra richiama in più punti quello di Johnny Marr (“People Ruin Paintings”, ovviamente “Dear Stephen”), ma c’è anche qualcosa dei R.E.M. periodo I.R.S. e – come spesso nei Manics – un afflato arioso alla Waterboys (“My Brave Friend”). “Hiding in Plain Sight”, che vede nuovamente Wire alla voce, si rifà invece al rock fine anni Settanta di band come The Only Ones e Cockney Rebel. La sua vulnerabilità vocale aggiunge un livello emotivo inedito al sound della band, mentre le armonie di Lana McDonagh offrono un contrasto delicato e avvolgente.

 

La chiusura dell’album, affidata a “One Man Militia”, segna un ritorno alla provocazione. Wire torna protagonista con una performance vocale declamatoria e caustica, mentre il sound richiama la visceralità dei The Fall. Qui i Manics sembrano fare i conti con la propria eredità: «I sound like a dying cause, I won’t listen anymore», canta Wire, con un’eco che rimanda ai giorni più feroci della band. Un finale che non offre risposte, ma lascia aperte le domande, come i Manic Street Preachers hanno sempre fatto.

 

Insomma, Critical Thinking non è un album che stravolge le regole del gioco, ma ribadisce perché i Manics siano ancora rilevanti dopo tanti anni. Affronta l’invecchiamento con intelligenza e dignità, senza cedere alla nostalgia o al cinismo fine a sé stesso. In un’epoca in cui molte band veterane riciclano formule collaudate, i Manic Street Preachers continuano a interrogarsi e a cercare significato nel caos. E questa, forse, è la vera essenza del pensiero critico.