Sperimentazione e ricerca sonora, con un approccio moderno, senza dimenticare la tradizione, sono concetti che fanno parte del background artistico di un prezioso innovatore, lo straordinario compositore britannico Mike Oldfield. Dalla classica al rock fino alla sua diramazione hard, attraverso folk, new age, prog ed elettronica, strizzando l’occhio al pop, non tralasciando un tocco minimalista: ecco in sintesi le caratteristiche della sua musica, una brillante commistione di generi mai noiosa e fine a se stessa, dove la gioia e il dolore, il limpido e il cupo convivono come facce della stessa medaglia.
L’eccellente Crises, acuto saliscendi di emozioni pubblicato nel 1983, rispecchia fedelmente quanto descritto sopra, con l’oscuro lato A che ospita i venti minuti raggelanti, carichi di tensione della title song e il lato B a stemperare le angosce con una manciata di canzoni più corte, arricchite da pregiati vocalist.
Gli anni ottanta hanno rappresentato per Oldfield la possibilità di percorrere sentieri più commerciali dopo la sbronza progressive rock del decennio precedente, capitanata dal tumultuoso e ormai mitico esordio Tubular Bells (1973).
Già il precedente Five Miles Out incarna questo differente ciclo maggiormente “pop oriented” (in realtà esperimenti anteriori di tale tipo vi sono anche in QE2 e Platinum, ma si tratta di episodi meno rilevanti), mantenendo la prima frazione della raccolta ancora strettamente collegata ai lavori passati, ma aprendo una nuova strada nella seconda, che a parte la lunga "Orabidoo", presenta tre pezzi concisi, fra cui l’hit "Family Man", che poco dopo diventerà un cavallo di battaglia pure per lo storico duo Daryl Hall & John Oates.
“Crises, crises, you can’t get away” è il grido nervoso che accoglie l’ascoltatore negli iniziali versi cantati del disco; la lunga suite comincia in modo rasserenante, ma i toni velocemente cambiano, la chitarra del polistrumentista emette reiteratamente un ringhio minaccioso, il ritmo si velocizza e inizia una rumorosa scorribanda sonora che porta alla parte vocale citata, più volte ripetuta. Poi l’atmosfera si tranquillizza un poco, l’ansia si placa, anche se il testo prosegue la fase inquietante.
“The watcher and the tower,
Waiting hour by hour.
There's a breech in the security,
A disturbance in tranquility”
“Il guardiano e la torre, in attesa, ora dopo ora. C’è una falla nella sicurezza, un disturbo nella tranquillità”.
Tali parole conducono all’artwork del progetto che, tra l’altro, ha le prime due frasi stampate nella back cover, a dimostrazione di una concezione di larghe vedute e con svariate chiavi di lettura. Infatti l’LP adotta un intenso, enigmatico e fantasioso dipinto di Terry Ilott come copertina che riconduce alla tematica sopra riportata e aggiunge fascino a un’opera già di per se raffinata e intrigante. L’immagine diventa vero e proprio elemento di narrazione, e, come raccontato dallo stesso Mike Oldfield, simboleggia lui stesso in quell’uomo nell’angolo osservatore/guardiano/sentinella - The Watcher - della sua musica, paragonata a una torre - The Tower -. Una musica che punta a uscir dalla Terra, accarezzare la luna e dileguarsi nell’universo.
La composizione prosegue dominata dai numerosi sintetizzatori e dall’intreccio di Fender Stratocaster e Gibson SG Junior tanto care all’artista, che imperversa praticamente suonando in solitaria, fatto salvo qualche guizzo di Phil Spalding, Ant Glynne e Rick Fenn, fino al tumultuoso finale in crescendo, quasi festoso, rinforzato dalla potenza dei Tama drums, frutto di quel genio di Simon Phillips, per giunta coproduttore del disco e in seguito poderoso batterista touring member di Who e Toto.
Insomma, parafrasando il titolo, le crisi sono passate e lo testimonia la gaudente "Moonlight Shadow", grande hit del musicista britannico, cantata in “modalità soprano”, passatemi il termine, da Maggie Reilly. Questo motivo è sicuramente il fiore all’occhiello della tracklist, quindi risulta parecchio interessante non rimanere in superficie, ma analizzare a fondo la storia della sua composizione.
Sembra che inizialmente venisse prevista la partecipazione di Enya, poi non avvenuta per motivi contrattuali, mentre è certo che la prima incisione avesse come nome "Midnight Passion". A dispetto della soffice melodia, il testo, invece, non è per niente allegro, narra di un omicidio e della conseguente elaborazione del lutto, e all’epoca si pensò fosse collegato a quanto accaduto a John Lennon. Successivamente Oldfield ha in parte smentito questa ipotesi, sostenendo di essersi ispirato a un film carico di spiritualismo che adorava, Houdini, con Tony Curtis, ammettendo, però, la possibilità di aver rivissuto la tragedia dell’ex beatle nel subconscio, visto che nel Dicembre ’80 abitava a New York, a pochi passi dal luogo del delitto.
"Foreign Affair", sempre magistralmente interpretata da Maggie Reilly che è pure coautrice delle liriche, rimane un’altra perla indimenticabile della carriera del musicista nato a Reading, fenomenale nell’ingegnarsi un andamento sognante utilizzando un Fairlight CMI associato all’orchestrazione creata da un Roland. Questo esperimento è pienamente riuscito e il pezzo sopporta bene le angherie del tempo, risultando fresco e moderno fino ai giorni nostri. A dimostrazione oggettiva del successo vi sono le numerose cover e un massiccio airplay, grazie anche alla durata contenuta e alla melodia d’avanguardia, con sfumature pop.
Ascoltare la seguente "Taurus 3" permette di apprezzare appieno il camaleontico virtuosismo di Mike Oldfield, un gigante in questo pezzo strumentale, il terzo nella carriera, come si evince dal titolo, dedicato al suo segno zodiacale. Un vero e proprio tributo al flamenco, ovviamente nella sua personale versione, ulteriore espressione di duttilità e propensione al crossover fra generi.
“Il motivo per cui ho coinvolto Jon Anderson e Roger Chapman in Crises? Semplicemente perché bazzicavamo nello stesso bar!”
Più sincero di così…
"In High Places" non sarebbe la stessa senza il contributo vocale e la partecipazione alla stesura del testo dell’ex leader degli Yes. Il vibrafono di Pierre Moerlen, leggendario batterista dei mitici Gong, è un altro valore aggiunto della traccia.
Rimane così da parlare della nerboruta "Shadow In The Wall", scartavetrata da un Roger Chapman al top della forma e con un riff geniale e incalzante. Il ruggito del mitico Chappo trasforma il motivo in un brano dei Family in versione heavy metal, corroborato dalla sei corde del padrone di casa in primo piano. Sembra incredibile, ma all’interno dell’incisione c’è pure un banjo, a stemperare frasi di fuoco come “treat like a criminal/just a shadow on the wall/treat like I’m evil”.
L’analisi di musica e parole dell’artista non può prescindere da un cenno all’infanzia e alla sua biografia in generale: schegge impazzite dei problemi vissuti si palesano notevolmente nei lavori e, in particolare, in Crises. In effetti il giovane Mike vive frequenti crisi ansioso-depressive, alimentate da pesanti difficoltà di relazione con la madre Maureen, alcolizzata con grossi problemi di salute mentale che tristemente la spingeranno in seguito al suicidio. Sicuramente influisce su di lei la perdita del figlio più giovane, affetto da sindrome di Down e la conseguente prescrizione di barbiturici, che le danno un’acuta dipendenza. La personalità fragile del compositore, con molteplici sfaccettature, subisce un ulteriore trauma per questa delicata situazione e si troverà presto a convivere con sregolatezza sentimentale, uso di droghe e sbronze colossali.
Il rapporto con la fama e la gente che lo circonda non sarà mai dei migliori, tanto che dopo avere sfornato, tra alti e bassi, numerosi prodotti di successo, nel 2009 si lascerà scappare la frase “Non ho alcun amico, solo avvocati”, nuovamente a delineare la propria idiosincrasia per i legami duraturi e l’idea che la notorietà crei più problematiche che vantaggi.
Un’esistenza veramente tumultuosa gli riserverà di nuovo una tragedia nel 2015 quando verrà trovato morto uno dei figli, ma nonostante ciò o forse proprio perché sconfortato per questo immane lutto, riuscirà, due anni dopo a dare un seguito a uno dei suoi album più famosi, Ommadawn, pubblicando Return to Ommadawn. Due opere che, per scherzo del destino o magari volutamente a fini commemorativi, vedono la luce dopo tali disgrazie, la perdita della mamma di cui si è tristemente parlato sopra e quella, appunto, del trentatreenne Dougal.
Rimane così ancora oggi l’immagine di un Maestro dal carattere estremamente chiuso e introverso, che ha saputo rifugiare ciascun profondo sentimento provato nella musica, sia fosse uno struggente strumentale o una piacevole canzone da airplay, riuscendo a modulare le angosce, ben presenti nella sua arte, con una smisurata voglia di vivere, malgrado tutto…e proprio questa giostra emozionale ha conferito un’aura magica alle composizioni.
“In questo mondo tutto ha un battito o una vibrazione e questo suono è unico per qualsiasi essere, vivente o non vivente. Qualsiasi cosa, quindi, crea una musica, anche se nessuno può ascoltarla. Credo che tutto ciò abbia una fortissima risonanza e un profondo effetto sulle nostre vite”.
Probabilmente questo è il segreto di Mike Oldfield: per lui tutto è musica. Vivere la vita è vivere la musica perché la musica è vita.