Iperattivo sin dagli anni Settanta il paisà Frankie Cavallo (New York, classe 1951), già batterista prodigio, ha incendiato e bruciato innumerevoli palcoscenici e formazioni (Funeral Of Art, Pump, Kongress, Red Transistor, Why You Murder Me, Avant Duel col fido Ruggins) suonando bizzarrie d’avanguardia e psichedelia assortita (sessioni per chitarre distorte, improvvisazioni… c’è pane per gli storici e i curiosi); nel 1978, ribattezzatosi Von Lmo, diviene, col gruppo omonimo[1], una delle attrazione del Max’s Kansas City assieme ai grandi nomi della new wave come Talking Heads e Patti Smith.
Affogato il club dei debiti (Cavallo si esibisce nello spettacolo d’addio), Von Lmo registra il primo lavoro, Future Language, per poi abbandonarsi ad un totale sfogo autodistruttivo e scomparire per un decennio. Riavutosi, e per nulla cambiato, regalò alle platee questo Cosmic Interception, nove pezzi “super space-age heavymetal dance rock” (ipse dixit), rielaborazioni di precedente materiale degli anni Ottanta. In realtà la definizione, al netto d’un indubitabile esibizionismo del Nostro, non è inaccurata: si tratta effettivamente di una serie di rock ‘n’ roll coinvolgenti per l’intrinseca ballabilità e per l’interpretazione da roaring bluesman di Cavallo, ma, allo stesso tempo, imbevuti della sensibilità no wave di New York, che agisce da moderno filtro sulla tradizione grazie alla ritmica martellante e al magnifico sassofono del compare Juno Saturn.
Si comincia e si finisce con i due pezzi eponimi contrassegnati dal contagioso ritornello cibernetico “We transmit, you intercept” e da assoli hendrixiani in background; nel mezzo, altri episodi esemplari, “Radio World”, “Shake Rattle and Roll”, “This Is Pop Rock”, “Leave Your Body” e l’inno “Be Yourself”: lo schema immortale di Bill Haley, velocizzato oltremisura, è ruggito con irruenza canagliesca e quasi punk e aggiornato dalle percussioni ossessive (ma sempre sotto controllo, anche nei momenti ipercinetici), dagli instancabili arabeschi si Kross alla chitarra e dalle punteggiature free jazz di Saturn, vero fattore straniante dell’opera che, oltre a iniettare nuova linfa al vecchio corpo rockabilly, lo depura da trite empatie nostalgiche.
Personaggio poco conosciuto nelle sue reincarnazioni più eccentriche, rimane ancora da valutare nella sua interezza di compositore; queste intercettazioni, più sanguigne che cosmiche in verità, sono il biglietto da visita più eclatante.
[1] Un gruppo di eccellenti strumentisti, alcuni amici di vecchia data di Cavallo: Mike Kross, chitarra; Craig Coffin, basso; Juno Saturn, sassofono; Otto von Ruggins, tastiere, Bobby Ryan, batteria.