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REVIEWSLE RECENSIONI
19/06/2024
Oluma
Cooking Time
"Cooking Time" degli Oluma è un album ricco, che offre un groove tangibile e un livello compositivo interessantissimo e all'avanguardia. Afrobeat, funk e jazz in un'amalgama di altissimo valore, degno della corona nell'alveo delle uscite del genere.

Non basta suonare bene una cosa, bisogna essere circondati dall’atmosfera giusta, ecco che così il risultato sarà diverso, il centro non faticherà ad arrivare.

L’afrobeat, il groove e il funk appartengono ad un mondo sonoro in cui gli ingredienti che lo compongono non sono solo tecnici, ma molto spesso sono anche le polveri che fluttuano nell’aria e si mischiano al disco a regalargli quel sapore di cui sopra, unico.

E per farlo non è necessario essere black, non è obbligatorio essere di Broadway o nigeriani.

Nel caso degli OLUMA siamo di fronte ad un ensemble di fresca nascita (2021) ed insolita provenienza, visto il genere. Siamo infatti a Leipzig in Germania, quando il trio formato dal bassista Gregor Nicolai, il batterista André van der Heide e il sassofonista Roman Polatzky, dà vita a questo nucleo basilare, ristretto nel numero, ma evidentemente ricco in potenza tanto da richiedere un immediato e ovvio allargamento di formazione.

L’aggiunta di una solida sezione fiati, un chitarrista, un percussionista ed un pianista ampliano a dismisura il punto di arrivo delle musiche. Ecco che Cooking Time, disco del 2024 uscito per la danese One World Records, si presenta come un album ricco, che offre, rispetto agli standard di uscita (anche alti) cui ci siamo abituati in questi anni nel genere, qualcosa di più in partenza. Il groove è tangibile, il livello compositivo è interessantissimo e all’avanguardia (basti ascoltare l’opening "Felantropique", il tema di fiati che chiude la canzone "Achtronaut" o "Hasty Train"), nonché il livello solistico ("Oddacity" e il solo di tromba lasciano credere di essere lì, in mezzo al pubblico in uno dei tanti festival estivi in cui girano i nostri) da cui si intravede la pasta dei musicisti coinvolti, non esattamente soltanto tecnici, ma anche con un fraseggio che parla di e per loro.

 

Potrebbe bastare per trovarsi di fronte ad un ottimo disco. Eppure c’è qualcosa in più che lo tiene a galla e lo lascia svettare continuamente, durante e dopo l’ascolto: il suono.

L’artefice è lui, il producer e autentico guru del suono vintage, dei delay e dell’afrobeat Umberto Echo. Non è difficile capirlo. La gestione sonora della ritmica sempre solida e al proprio posto, invisibile ma preciso e invalicabile, che sostiene senza farsi sentire e un attimo dopo lancia una strepitosa frecciata tecnica, degli equilibri degli arrangiamenti che stanno sotto mentre dovrebbe svettare altro (ancora "Oddacitty" è scuola pura, stavolta nella seconda parte, durante il solo di pianoforte elettrico). Una produzione sonora più che d’arrangiamento, laddove l’aspetto di scrittura è blindato con questi nove genietti che mettono in mano di questo sapiente maestro del suono ciò che ne deriva. Una cassaforte.

L’ampiezza di genere è un punto vittorioso: si riesce a sentirsi dentro l’afrobeat, il funk, la sperimentazione sonora, e tanto, tanto jazz. Picchi compositivi alla Tower of Power come "SunrowI" mettono in chiaro la grandezza del disco in cui siamo, se vogliamo, sdrammatizzando quel sapore compositivo autoreferenziale il cui rischio è sempre dietro l’angolo quando siamo in un genere con forti impulsi solistici come questo.

 

Certo, se vogliamo trovare un “difetto” lo troviamo. Siamo di fronte ad un disco estremamente pulito. La qualità sonora sublime rischia in effetti di far storcere la bocca a qualche altro guru dell’afrobeat che non colga la sporcizia di Tony Allen, Fela e compagni, o il sudore di Maceo, Sly e compagnia bella. In questo senso è un po’ come se si prendesse la prescelta (non necessaria, per il sottoscritto) pulizia di un jazz dell’anno 2024 e si affiancasse ad una qualità sonora suprema con il giusto livello di ambiente nei microfoni e quello è lo sporco che dobbiamo farci bastare. Non una saturazione, tutto a livello ma fortemente nelle mani della dinamica.

"On a walk" e il solo di basso in questa armonia dal sapore minore armonico e quindi arabeggiante riescono a stenderci. Questa è la differenza, la dinamica nelle mani di musicisti assolutamente all’altezza. C’è tempo di respirare del Brasile in "Song for Paulo", tra il mondo percussivo e il suo difficile tema. Non mi piace il solo di chitarra ed il suo suono piccolo e scheletrico (un difetto!), ma abbiamo tutto il tempo di contorcerci nell’aritmia del tema al suo ritorno e lasciarci carezzare dal Sudamerica che emana l’altro solo, quello del sassofono di Polatzky circondato dalle percussioni del caso.

"Jello" è il colpo di grazia alla scrittura difficile, coinvolgente ed al perfetto impacchettamento sonoro, difficile non caderci. Il tema poi lascia respirare per un attimo il bellissimo Pastorius di "Amelia", suo rarissima prima composizione funk scritta in una notte ai tempi dei Cc Riders. Lo spy che mancava. La chitarra si prende l’immancabile rivincita sonora nel solo che ne consegue e non avevo dubbi che bastasse mescolare le acque con una punta di fuzz intinta nel wah.

 

Tema ostico e tutti a casa.

Ah no. C’è spazio per i titoli di coda. Perfetti. Synth con auto wah, groove ipnotico, percussioni semplici e appuntite, frasi di fiati che si allungano e il loro rilassarsi sembra darci la possibilità di alzarci dalle sedie del cinema senza sentirsi in colpa nei confronti della fila dietro a noi. Un minuto e cinquantacinque e questa era "HCR Skit".

Ed è così che questo disco, autentica sorpresa, ci saluta e ci chiede di rispondere con gentilezza. Impossibile non farlo con un voto altissimo. Di genere, ne siamo consapevoli, ma Cooking Time degli OLUMA è assolutamente un disco da incoronare e sottolineare.