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REVIEWSLE RECENSIONI
17/03/2025
Gurriers
Come and See
Tra le novità più interessanti dell’anno appena trascorso ci sono i Gurriers, che al nostro redattore sono "implosi dentro al primo ascolto", tanto che non ha potuto resistere a scriverne. Se a qualcuno fossero sfuggiti o se qualcuno li avesse amati altrettanto, questo pezzo è per voi.

Scusate il ritardo. Anche se non è mai tardi per parlare di sorprese.

Tra le novità più interessanti dell’anno appena trascorso ci sono infatti loro, i Gurriers.
Quintetto irlandese residente a Dublino, mi implosero dentro al primo ascolto, accanto a quella piccola diffidenza che mi soffocò il momento, come si fa quando una cosa ti sorprende troppo e non sai ancora se fidarti del tutto.

Siamo in un territorio caotico, crudo, suonato, distorto, urlato senza per questo sfociare nelle urla manieristiche di chi escogita una tecnica per farlo. Un urlo con il filtro? No, grazie. E questo lo apprezzo terribilmente, perché se in un territorio punkeggiante si tira fuori la voce, lo si fa in maniera sguaiata, non si ricorre alla tecnica. Sarebbe altro e le maniere finirebbero per trovarsi in contrasto con lo scorrere del messaggio.

Quindi territorio post punk, qualcosa che richiama i conterranei Fontaines D.C., ovviamente. Non c’è ancora la consapevolezza del pubblico più grande, l’esigenza del suono che riempia meglio posti più grandi; qua siamo ancora nei club, al chiuso, è una sala prove che suona bene, senza per questo trattenersi dallo sciorinare una produzione coi fiocchi.

Un disco di undici brani usciti col contagocce attraverso una continua alternanza di singoli (ben otto) cominciati nel 2021 e risolti a settembre 2024 con l’uscita dell’album intero Come And See, ma di fatto ancora in corso.

 

Non è solo musicale lo schiaffo che arriva, anzi, è proprio l’aspetto testuale che trova una sua forma di radice nell’oggi più vissuto, subìto e spintonato per disfarsene e trovare con questa reazione uno scuotimento fisico che ci tolga dal torpore e smuova il terreno sotto i piedi a chi ascolta; ecco cos’è, tentare di cambiare il tessuto da sotto. Come il rifacimento di un manto stradale fatto senza fermare il traffico delle auto. Siamo di fronte ad un messaggio forte e più piazzato con i piedi nel presente di quanto si possa pensare.

“Nausea (…) Online, we pass the time, Sitting through abhorrent crime, It’s a problem that they all have!”

La malattia che emerge da "Nausea", il brano di apertura, è secca e intenzionalmente tangibile: nelle parole, sicuro, ma anche nei suoni che sembrano giocare con le consonanti del titolo e spostarsi sul noise. Bello il respiro di un accodo maggiore che emerge in unico punto prima della coda, giusto a correre in soccorso di un soffocamento imminente.

"Des Goblin" prosegue il discorso legandosi alla carica emotiva pulsante, affidandosi stavolta ad un basso distorto e dal sapore stoner per aprire le danze, fino a sfociare in un tappeto armonico dal sapore appena arabeggiante. Lo stop di metà canzone è uno dei tipici punti a favore dei Gurriers, le sorprese che non ti aspetti. Quindi stop, il giro che si dimezza letteralmente fino ad appesantirsi e visualizzare le zampe di elefante che calpestano marzialmente il terreno, intuire una velocizzazione, sempre più pressante, che aumenta a dismisura fino a riportare la canzone ad aprire e ritrovarsi in quell’inizio.

 

"Dipping Out" ha il sapore dell’hardcore fuso al rock’n’roll che sono abituato a ricondurre, per mia personalissima storia, a Dennis Lyxzén dei Refused ma soprattutto ai suoi International Noise Conspiracy. Una canzone dal sapore piacevole, nostalgico e risentito, almeno in quel senso. Quindi poche sorprese stavolta.

Tocca a "Prayers" invece convincermi che i Gurriers mi piacciono davvero, non si saranno inventati alcuna formula nuova, ma la scrittura e l’arrangiamento sono un passo avanti rispetto alla media e la cosa mi rincuora. Il messaggio scuote e lo fa su più fronti. Bella la preghiera che prende la forma di un basso e voce, a prescindere da tutto, dai toni sommessi del momento, dalla perdita del riferimento verso lo spettro sonoro cui si sembra sempre dover pagare pegno, in favore di un giro che ovviamente (visti gli ingredienti e la dinamica) si scurisce e chiude su se stesso. Senza preoccupazione alcuna. Questo mi piace, perché mi sono mosso in quella direzione con me stesso e ho percepito la vita del disco.

"Close Call" riprende il discorso dei brani martellanti e di chiamata alla armi, tanto che le chitarre, anche stavolta, fungono più da sirena antiaereo, che da vero e proprio giro armonico.

"No More Photos" parte incessante su una batteria appena più veloce, ma fondata sui fusti. La voce prende le redini del brano e va in alto, in una maniera talmente insolita che mi fa venire in mente gli At the drive in, per certi versi gli Dei Shellac o comunque quella maniera particolare di equilibrare le voci alte su delle ritmiche ostinate e noise; siamo sostanzialmente nel postrock.

 

"Interlude" ci accompagna nella tre quarti del disco e lo fa dandoci un aspetto strumentale e gustoso da cui si intravedono altre frecce compositive di pura bellezza.

Tanto che la successiva "Top Of The Bill" mi risulta la più innovativa, fresca, o comunque la canzone da cui si intuisca altro, magari un aspetto del possibile futuro discografico dei Gurriers. La cosa mi piace, proprio per la libertà che si continua a sentire in degli sprazzi armonici di altro genere.

"Sign Of The Times" prosgue in maniera ancora migliore questo percorso innovativo e si piazza sul podio delle migliori perle del disco. Senza un motivo particolare che mi debba costringere a cercare delle parole migliori delle altre. Ma le sensazioni che arrivano sono genuine, di pieno possesso del messaggio, degli strumenti, dell’alternanza tra chiaro e scuro, tra rabbia e stordimento.

"Approachable" ha quel fascino semplice e diretto del treno che marcia in avanti senza interruzioni, per merito di cassa e rullante, alternati in maniera schietta e ripetitiva, i momenti di silenzio chitarristici che regalano momenti ad una spietata marcia voce, basso e batteria, che vincono a mani basse in quanto a trascinamento. In più il riff chitarristico è forse il primo vero del disco dal sapore un po’ più spostato sull’hard rock, tanto da lanciarmi nella mente i Living Colour.

 

Tocca alla bella "Come And See" chiudere il disco e lo fa prendendosi il suo tempo e trascinandoci nel suo sapore, per la prima volta appena più vicino agli anni Ottanta, sarà per il suono di basso intinto nel chorus e in quella liquidità da cui si fatica ad uscirne in quanto a richiami di decenni. I feedback di chitarra ingoiano quest’ispirazione e li ringrazio perché tutto sommato lasciano un po’ di calore addosso proprio sugli ultimi echi sonori.

Se il messaggio che spunta è comunque una forte presa di coscienza parallelamente a un invito a reagire, da un’altra parte c’è costantemente la sensazione di essere degli osservatori di questa situazione degenerativa, come se comunque fosse chiaramente possibile giudicarla e mantenere la  vitale lucidità. L’unione di questo senso a delle sonorità anni Ottanta e amiche, con un ritmo appena più dilatato e meno caotico, lasciano un sentimento unico e innegabile; la bellezza è più di una semplice percezione.

Ciò che ci arriva come emozionante è una concreta soluzione alla ricerca di lucidità, ingrediente fondamentale per sentirsi vivi nel presente.