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REVIEWSLE RECENSIONI
Collections From The Whiteout
Ben Howard
2021  (Island)
AMERICANA/FOLK/COUNTRY/SONGWRITERS
7,5/10
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05/06/2021
Ben Howard
Collections From The Whiteout
Al quarto disco, Ben Howard cambia ancora, con una seducente raccolta di canzoni che sintetizzano tutte le direzioni diverse prese nei precedenti album

Nonostante siano passati dieci anni dal primo album di Ben Howard, Every Kingdom, il cantautore è ancora tormentato dal quel primo inaspettato successo. Howard si è rapidamente allontanato dal suono folk-pop di quel disco, sposando il riverbero cupo e agonizzante del successivo I Forget Where We Were del 2014, un album che suonava disperato come un grido di dolore. Nonostante la rabbia dei fan che volevano un altro Every Kingdom, e che si ostinavano a gridare "suona Keep Your Head Up" ai suoi spettacoli dal vivo, Howard ha deciso di seguire una strada meno prevedibile e decisamente più complicata. E la sua determinazione a farlo, a fare la musica che vuole fare, senza guardare le classifiche e il ritorno commerciale, è profondamente ammirevole. Quella determinazione ha raggiunto il suo apice con Noonday Dream del 2018, un album ricco di atmosfera e di testi criptici e inquietanti, lontano anni luce dalla chitarra solare del singolo del 2011, Only Love.
Nel suo quarto album, Collections From the Whiteout, Howard ha spostato nuovamente il baricentro della narrazione e ha azzardato, combinando elementi di tutti i suoi lavori precedenti, pur mantenendo i fili che li legavano insieme: il suo modo di scrivere canzoni di alta classe, la voce distintiva e il modo creativo di suonare la chitarra (il suo incredibile fingerpicking). Ha anche aperto per la prima volta a collaborazioni fuori dalla cerchia dei musicisti che lo accompagnano da tempo. Ha quindi coinvolto Aaron Dessner dei The National – che di recente ha collaborato anche con Taylor Swift - e tutta una serie di altri musicisti pescati dalla vasta rubrica telefonica di Dessner.

Il risultato di tutto questo è un disco che sembra fresco e nuovo, ma che è ancora distintamente un disco di Ben Howard. Ciò è lampante, ad esempio, nella straniante e bellissima Sage That She Was Burning, che presenta una bizzarra distorsione elettronica nell'introduzione, su cui si dipana il cantato malinconico di Howard fino a un momento di stasi acustica e alla conclusione mozzafiato trainata dalla batteria di Yussef Dayes (vengono in mente i Radiohead, ma è Howard sotto mentite spoglie). Un brano che riassume il mood di Collections, un disco ondivago e fatto di attimi, di intuizioni, di stati d’animo estemporanei, che vanno dallo sfarfallio elettronico della toccante Follie's Fixture, all’intreccio vellutato del singolo What a Day, o alla famigliare sensazione d’intimità dell’acustica Rookery.

Il rischio, vista la vasta gamma di collaboratori, di suoni e di idee, era quello che Collections potesse suonare disomogeneo e pretenzioso. Tuttavia, la brevità delle tracce, la qualità del songwriting e la voce di Howard, così delicata, fragile e al contempo profonda, tengono tutto insieme. Il calore e la leggerezza degli esordi trovano qui una nuova forma e una nuova dimensione, lo stile e le canzoni sono più aperte alle contaminazioni, e il disco riesce nell’intento di fondere il vecchio Howard, il suo stile mutante, ma immediatamente riconoscibile, in qualcosa che suona originale e fresco, eppure incredibilmente famigliare.

Non so dire se questo possa essere considerato il miglior disco di Howard: forse ognuno dei suoi quattro lavori finora pubblicati, a modo suo lo è, e il giudizio dipende esclusivamente dalla sensibilità di chi ascolta (personalmente amo alla follia il più cupo e malinconico I Forget Where We Were). Di sicuro, Collections suona come il suo più vario, intrigante e completo, e testimonia quanto questo grande songwriter sappia rinnovarsi pur mantenendo fede a se stesso.


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