Nonostante siano passati dieci anni dal primo album di Ben Howard, Every Kingdom, il cantautore è ancora tormentato dal quel primo inaspettato successo. Howard si è rapidamente allontanato dal suono folk-pop di quel disco, sposando il riverbero cupo e agonizzante del successivo I Forget Where We Were del 2014, un album che suonava disperato come un grido di dolore. Nonostante la rabbia dei fan che volevano un altro Every Kingdom, e che si ostinavano a gridare "suona Keep Your Head Up" ai suoi spettacoli dal vivo, Howard ha deciso di seguire una strada meno prevedibile e decisamente più complicata. E la sua determinazione a farlo, a fare la musica che vuole fare, senza guardare le classifiche e il ritorno commerciale, è profondamente ammirevole. Quella determinazione ha raggiunto il suo apice con Noonday Dream del 2018, un album ricco di atmosfera e di testi criptici e inquietanti, lontano anni luce dalla chitarra solare del singolo del 2011, Only Love.
Nel suo quarto album, Collections From the Whiteout, Howard ha spostato nuovamente il baricentro della narrazione e ha azzardato, combinando elementi di tutti i suoi lavori precedenti, pur mantenendo i fili che li legavano insieme: il suo modo di scrivere canzoni di alta classe, la voce distintiva e il modo creativo di suonare la chitarra (il suo incredibile fingerpicking). Ha anche aperto per la prima volta a collaborazioni fuori dalla cerchia dei musicisti che lo accompagnano da tempo. Ha quindi coinvolto Aaron Dessner dei The National – che di recente ha collaborato anche con Taylor Swift - e tutta una serie di altri musicisti pescati dalla vasta rubrica telefonica di Dessner.
Il risultato di tutto questo è un disco che sembra fresco e nuovo, ma che è ancora distintamente un disco di Ben Howard. Ciò è lampante, ad esempio, nella straniante e bellissima Sage That She Was Burning, che presenta una bizzarra distorsione elettronica nell'introduzione, su cui si dipana il cantato malinconico di Howard fino a un momento di stasi acustica e alla conclusione mozzafiato trainata dalla batteria di Yussef Dayes (vengono in mente i Radiohead, ma è Howard sotto mentite spoglie). Un brano che riassume il mood di Collections, un disco ondivago e fatto di attimi, di intuizioni, di stati d’animo estemporanei, che vanno dallo sfarfallio elettronico della toccante Follie's Fixture, all’intreccio vellutato del singolo What a Day, o alla famigliare sensazione d’intimità dell’acustica Rookery.
Il rischio, vista la vasta gamma di collaboratori, di suoni e di idee, era quello che Collections potesse suonare disomogeneo e pretenzioso. Tuttavia, la brevità delle tracce, la qualità del songwriting e la voce di Howard, così delicata, fragile e al contempo profonda, tengono tutto insieme. Il calore e la leggerezza degli esordi trovano qui una nuova forma e una nuova dimensione, lo stile e le canzoni sono più aperte alle contaminazioni, e il disco riesce nell’intento di fondere il vecchio Howard, il suo stile mutante, ma immediatamente riconoscibile, in qualcosa che suona originale e fresco, eppure incredibilmente famigliare.
Non so dire se questo possa essere considerato il miglior disco di Howard: forse ognuno dei suoi quattro lavori finora pubblicati, a modo suo lo è, e il giudizio dipende esclusivamente dalla sensibilità di chi ascolta (personalmente amo alla follia il più cupo e malinconico I Forget Where We Were). Di sicuro, Collections suona come il suo più vario, intrigante e completo, e testimonia quanto questo grande songwriter sappia rinnovarsi pur mantenendo fede a se stesso.