Quando parli di musica con lei ti cita una marea di influenze, segno di quella natura onnivora e priva di barriere spazio-temporali che caratterizza la generazione dei nativi digitali. C’è però un dato che balza all’occhio: quando deve elencare i titoli dei suoi album della vita, tira fuori “6 Feet Beneath the Moon” di King Krule, “Channel Orange” di Frank Ocean e “Doris” di Earl Sweatshirt. Non si tratta solo di tre artisti ben radicati nella cultura Urban e allo stesso tempo convinti sperimentatori che poco tengono da conto le barriere di genere; parliamo anche di dischi usciti nel biennio 2012-2013, quando la ragazza frequentava le scuole medie.
Forse qualcosa sta veramente cambiando, nel senso che il fisiologico trascorrere del tempo, l’unico fattore a cui l’esercito sempre più cinico e agguerrito dei soloni della nostalgia dovrà per forza soccombere, sta lentamente portando in primo piano dischi e artisti ancora relativamente recenti ma che stanno già avendo un ruolo significativo nell’ispirare le carriere delle generazioni future.
Da questo punto di vista, Arlo Parks potrebbe essere un perfetto esempio di quella “musica del futuro” di cui ogni tanto si discute (ultimamente molto di più, dopo l’uscita del libro di Simon Reynolds che parla appunto di questo tema) ma di cui si fatica a trovare la quadra. Qui c’è una scrittura intima e personale, che fonde l’Indie Pop da cameretta con un RnB sempre molto discreto ma sufficientemente catchy da far muovere il piede; c’è una produzione minimale e a tratti vellutata, che valorizza tutti i dettagli (il merito è di Gianluca Buccellati, origini italiane ma da sempre newyorchese, che è anche co autore di parte dei brani) e una voce che non è mai protagonista ma costantemente al servizio delle canzoni.
Niente di nuovo sotto il sole ma tanta spontaneità e libertà di scrittura, oltre ad una dimensione quotidiana e domestica nel gestire gli spazi della propria creatività.
Arlo Parks, classe 2000, vive a Londra, nel quartiere di Hammersmith, per il momento ancora nella casa dei genitori ma le sue origini sono altrove, in un incrocio di vite che va dalla Francia fino al Ciad e alla Nigeria. È da un po’ che se ne parla, il suo Ep “Super Sad Generation” era andato molto bene e ha attirato l’attenzione di Billie Eilish, che l’ha indicata recentemente tra le sue nuove artiste preferite (non che lei abbia iniziato così tanto prima ma fa niente), mentre lo scorso agosto ha vinto un AIM Award nella categoria “One To Watch”. Alla fine è venuto fuori che l’avevo vista dal vivo pure io, nel novembre del 2019 a Milano, in occasione dell’ultima edizione del Linecheck. Me ne ero completamente dimenticato, mi è ritornato in mente quando ho letto della cosa, segno che all’epoca non mi deve aver lasciato poi molto.
L’ascolto di “Collapsed in Sunbeams”, l’esordio su full length che a questo punto rappresenta più una prova del nove piuttosto che un biglietto da visita, mi ha decisamente fatto cambiare idea.
Rimestando in un crogiolo d’influenze talmente variegato da perderci la testa (ha dichiarato di amare James Blake, SZA, i Radiohead, gli Strokes, Adrianne Lenker, gli A Tribe Called Quest e Lauryn Hill e ha confessato che ascolta anche tanto Jazz), Arlo scrive canzoni che possiedono una vena di malinconico intimismo, le confessioni di una ragazza appena uscita dall’adolescenza, che ha dovuto compiere un lungo percorso per accettarsi ed essere accettata: ne parla in “Green Eyes”, che racconta di un amore omosessuale e che non a caso ha scelto di cantare assieme a Clairo, che ha avuto una vicenda personale per certi versi simile.
“We’re all learning to trust our bodies, making peace with our own distortions” recita all’inizio dell’intro/title track (versi in spoken word sono disseminati lungo tutto l’arco del lavoro, a testimonianza di una passione per la poesia e per Sylvia Plath in particolare) e nell’arco di queste dodici canzoni il tentativo è più o meno questo. Racconta esperienze forti, con un’attenzione concreta ai dettagli (“Charlie melts into his mattress/Watching Twin Peaks on his ones”/Then his fingers find the bottle/When he starts to miss his mum”; “Let’s go to the corner store and buy some fruit/I would do anything to get you out your room”), nella consapevolezza che mettersi a nudo non sia una cosa semplice ma possa a volte costituire un mezzo per aiutare altre persone. Non a caso i suoi testi sono autobiografici, spesso dedicati ad amici che hanno vissuto gravi problemi, di dipendenza così come di depressione e lei stessa ha raccontato che quando hanno sentito per la prima volta queste canzoni, per loro è stata un’esperienza forte. Un volta è accaduto pure che una fan l’abbia fermata per strada e l’abbia ringraziata perché ascoltare i suoi pezzi le avrebbe fatto riconsiderare l’idea del suicidio.
È un album che nella sua vena intima di fondo, quasi in punta di piedi, riesce a citare tutta una serie di linguaggi differenti, declinati tuttavia in un’opera di sintesi che rende il tutto inaspettatamente omogeneo.
Si parte con l’RnB di “Hurt” e “So Good”, poi “Black Dog” che ha un andamento più soft, da ballata chitarristica, passando attraverso il quasi Trip Hop di “For Violet” e le ritmiche a la Radiohead di “Caroline” ed “Eugene” (che cita più o meno esplicitamente il periodo “In Rainbows”), fino ad una “Just Go” tenuta su da una bella chitarra dal retrogusto Funk.
Il tutto, lo si diceva, poco appariscente, quasi defilato, pochi elementi ma essenziali ed incastrati tutti al posto giusto.
Il titolo, “Collapsed in Sunbeams”, lo ha preso da Zadie Smith, uno dei suoi numerosi riferimenti letterari, e vuole dire che il sole possiede un’energia guaritrice che contribuisce in qualche modo a stemperare l’oscurità che si annida nelle vite che queste canzoni descrivono.
“I’m just a kid, I/suffocate and slip, I/hate that we’re all sick” canta in “Sophie”. Le canzoni di Arlo Parks sono la prova che c’è una via d’uscita da questo labirinto che sempre di più sembra essere la giovinezza. E che la musica, ogni tanto, può davvero contribuire a salvarti la vita.