Nati dalla fantasia del talentuoso Steven Wilson, come una sorta di divertito esperimento domestico, i Porcupine Tree, grazie anche al supporto del pubblico italiano (il primo a sposare il progetto e a riconoscerne la validità), hanno lentamente acquisito popolarità e successo commerciale, rilasciando dieci dischi in un arco temporale di diciassette anni. Poi, nel 2009, dopo la pubblicazione di The Incident, tutto improvvisamente si ferma e la band sparisce dai radar, instillando il sospetto, anche a causa di alcune dichiarazioni piccate di Wilson, che non ci sia più spazio per un nuovo disco.
Invece, dopo tredici anni di attesa, vede la luce, per la gioia di migliaia di fan sparsi in tutto il mondo, Closure/Continuation, il cui titolo ambiguo, esprime molto bene il senso che sottende alla pubblicazione dell’album: da un lato, la chiusura di un cerchio, il completamento di una storia gloriosa; dall’altro, il senso di continuità con un passato ricco di soddisfazioni, e l’apertura, forse, di un nuovo ciclo.
Sette canzoni, per la durata di quarantotto minuti, che, con qualche aggiustamento di tiro, rispecchiano perfettamente l’anima di una musica fascinosa, capace, nel tempo, di evolversi, pur rimanendo fedele a concetti imprescindibili: assimilare contenuti da più generi (progressive, alt metal, pop, elettronica) e creare un suggestivo melting pot con caratteristiche peculiari, un marchio di fabbrica non derivativo, ma distintivo e originale. In tal senso, Closure/Continuation è la summa del Wilson pensiero, l’espressione di un’anima artistica mutevole e sperimentale, che ha saputo esplorare territori diversi da loro, ogni volta con la stessa consapevolezza e con continue illuminanti intuizioni.
Al suo fianco, per chi si approcciasse per la prima volta al gruppo, due musicisti dal nobile pedigree, che, ben lontani dall’essere meri comprimari, hanno contribuito con il loro bagaglio artistico a dare profondità e lucentezza alle composizioni: Richard Barbieri, tastierista dei leggendari Japan, il cui tocco, lontano dai più bolsi paludamenti progressive, arricchisce le canzoni di atmosfere cinematiche e misteriose, e Gavin Harrison, straordinario batterista, dal drumming sincopato e rutilante, con un passato artistico sviluppatosi prevalentemente in Italia (Alice, Claudio Baglioni, Eugenio Finardi, Franco Battiato), e oggi militante nelle fila, oltre che dei PT, anche dei King Crimson.
Come accennato, Closure/Continuation racchiude in sé l’essenza della band, quel suono meticcio, che non dà punti di riferimento, che plasma suggestiva elettronica, sferzate di elettricità, gentilezza acustica e accattivanti melodie, abbinando immediatezza e profondità.
La porta sul mondo Porcupine Tree si apre con l’iniziale "Harridan" e il basso suonato da Wilson, che introduce una struttura molto dinamica, groovy, dall’architettura funky in 5/4, ma dal respiro ansioso, cupo, pronto ad esplodere in un’anfetaminica deriva alt metal, che evoca la ruvidezza cerebrale dei Tool. Una canzone simbolo, che però non esaurisce la grana espressiva di una band, che si muove a proprio agio anche quando condensa irresistibili e dolcissime melodie in atmosfere umbratili ("Of The New Day"), trasfigura sonorità pinkfloydiane attraverso una struggente patina malinconica ("Dignity") o spinge la tensione al parossismo, forgiando nel metallo riff ansiogeni, che si dissolvono in scenari claustrofobici ("Rats Return").
Qualcuno potrà obbiettare che Closure/Continuation sia un disco cerebrale e privo di pathos, un’opera autocelebrativa costruita con furbizia a tavolino. In parte, forse, è vero, ma non è scritto da nessuna parte che per comporre grandi canzoni sia anche necessaria la mediazione del cuore. Questo ritorno, pur nella sua complessa architettura tecnica e nell’approccio intellettuale e razionalista, riesce a veicolare suggestioni intense: il talento compositivo di Wilson, le sonorità elusive ed enigmatiche di Barbieri, e il drumming istintivo di Harrison, formano un connubio artistico a cui è impossibile resistere. Ed è quasi inevitabile concludere che, nonostante il lunghissimo iato, i Porcupine Tree restino ancora la migliore espressione possibile di quel genere che, nello specifico, forse un po' artatamente, definiamo progressive rock.