Giunti al nono album in studio in quasi vent’anni di carriera, si può dire che ormai gli Avett Brothers siano un’istituzione nel panorama Folk americano. E se magari in Italia sono un nome che ai più non dice niente, negli Stati Uniti, invece, i loro dischi arrivano immancabilmente in cima alle classifiche e i loro concerti sono costantemente sold out, come testimonia il loro recente passaggio al Barclays Centre di Brooklyn.
Con Closer Than Together gli Avett Brothers – un collettivo attualmente formato dai fratelli Seth e Scott Avett, il bassista Bob Crawford, il violoncellista Joe Kwon, il batterista Mike Marsh e la violinista Tania Elizabeth – realizzano il loro primo album sociopolitico, provando a raccontare l’America ai tempi di Trump e a verificare che cosa sia rimasto del Sogno americano. Lungo il corso dell’album, infatti, Seth e Scott si interrogano su argomenti come la violenza armata, il movimento #metoo, la polarizzazione politica e cosa significhi essere americani. Heady stuff, come dicono gli anglofoni, che carica l’album di ambizioni e paragoni ingombranti. Uno su tutti, il songbook di Bob Dylan dei primi anni Sessanta, dove, in album come The Times They Are a-Changin’, aveva affrontato argomenti come il razzismo, la povertà e i cambiamenti sociali. Ma se il bardo di Duluth aveva preferito lasciare le questioni in sospeso, scegliendo di presentare i problemi attraverso uno storytelling dall’afflato biblico e di lasciare all’ascoltatore la possibilità di concludere il ragionamento in totale autonomia, gli Avett Brothers cadono nell’errore di essere troppo didascalici, avventurandosi nel dare delle risposte semplici a problemi complessi, ammantando le canzoni di una certa retorica: tanto che viene da chiedersi se Seth e Scott non stiano correndo il rischio, pur con tutte le buone intenzioni del caso, di andare nella direzione sbagliata.
Ed è un peccato, perché anche se dal punto di vista lirico Closer Than Toghether è zoppicante, da quello musicale, invece, è una certezza. Abbandonate le contaminazioni smaccatamente Pop di True Sadness, qui gli Avett Brothers tornano a quel Folk sporcato di Rock che sanno fare tanto bene, come hanno dimostrato in quel piccolo capolavoro che è The Carpenter, dove in un colpo solo hanno saputo mettere insieme la ruralità della Band con la malinconia Country dei Jayhawks, e andando a citare, di volta in volta, mostri sacri dell’Outlaw Country come Waylong Jennings, Townes Van Zandt e Willie Nelson – senza dimenticare qualche strizzatina d’occhio alle melodie Sixties dei Beatles.
Tutti elementi che tornano in questo Closer Than Toghether, quinta collaborazione consecutiva degli Avett Brothers con Rick Rubin, registrato tra la pace e la quiete di Malibù e quel tempio dell’Americana che ormai è Nashville. Strumenti alla mano, Seth, Scott & Co. ormai sono una garanzia, dal momento che sanno spaziare senza battere ciglio dal Folk al Country, dal Rock al Pop, dall’acustico all’elettrico, con una grazia e un gusto che hanno pochi eguali nel panorama Mainstream. Tra il Bob Dylan sobrio dei primi quattro album (e mezzo) e quello più bucolico di Nashville Skyline, tra il Neil Young “classico” di After the Gold Rush e Harvest e il Pop Barocco dei Beatles e di Paul McCartney, Closer Than Together è un compendio di come si debba suonare il Folk Rock nel 2019, con i suoi intrecci di chitarre acustiche ed elettriche, gli accordi di pianoforte a sostegno delle melodia, il discreto uso degli archi e le armonie vocali à la CSN&Y – il tutto miscelato con un costante gusto Pop che male non fa. Unico passo falso, la base Neo-New Wave di “High Steppin’”, una scelta scellerata che grida vendetta – e di cui conosciamo nome e cognome del responsabile: Jason Lader. Il disco si chiude con gli archi e il pianoforte di “It’s Raining Today”, una ballata delicata che ricorda fin dal titolo il Randy Newman degli esordi. Una conclusione riflessiva per un album musicalmente (quasi) perfetto, ma frenato da un carico di ambizioni fin troppo pesante.