“Ha iniziato a dubitare della sua esistenza?”
“No, dubito che Z possa fornirle tutte le risposte che cerca.”
La vitalità, il rigoglio e il profitto di tutto “IL VERDE” selvaggio che si impone all’occhio per lo più irresponsabile della civiltà britannica, raffinata e rigidamente aristocratica, di inizio XX secolo; un militare e soprattutto un uomo che deve riabilitare il cognome familiare per sé, per la moglie e soprattutto per il piccolo figlio; la foresta amazzonica che tutto copre e assorbe, svelandosi in continuazione più abitata, pericolosa e sconosciuta di quanto fosse lecito aspettarsi e che diviene il richiamo costante e assillante di una vita intera a discapito di affetti autentici, dispute razionalistiche, orrori della guerra e, in particolar modo, piaceri e doveri genitoriali.
James Gray, regista newyorkese di opere magnifiche quali “Little Odessa”, “I Padroni Della Notte” e “Two Lovers”, continua a raccontare, con il suo stile ricercato, elegante e autorevole, personaggi con animi ambigui e impulsi contraddittori in storie apparentemente lineari ma figlie di un classicismo cinematografico statunitense di un’altra epoca.
Il senso di ineluttabilità dei gesti quotidiani (privati, sociali e politici, in città come nella giungla) sul palcoscenico sempre più vasto e maestoso del mondo raffigurato nei singoli film del regista rivelano in realtà, pian piano con lo scorrere dei minuti, la volontà di indagare con sensibilità rara e sguardo lucido su alcune delle domande fondamentali che nascono e crescono nel profondo dell’animo umano.
“Civiltà Perduta” (“The Lost City of Z”) narra della vita adulta di Percy Fawcett, militare, archeologo e esploratore britannico, che, insieme ad alcuni sodali e infine anche al proprio primogenito, si avventurerà all’interno della foresta sudamericana più inesplorata alla ricerca dei resti di una città che dimostrerebbe l’esistenza di un popolo evoluto precedente, forse, anche a quello europeo.
Il film si dipana per quasi due ore e mezza tra le spedizioni esplorative e il ritorno da quest’ultime; tra i difficoltosi ma incrollabili legami familiari e i successi/insuccessi pubblici delle scoperte effettuate; tra l’attrazione di aver individuato un paradiso personale su questa terra e il dato reale che questo si tramuti il più delle volte nel peggiore degli inferni; tra l’inesplicabile desiderio di conoscere luoghi, usi e costumi diversi dai propri all’incapacità di godere e adeguarsi a tutto quello che già si possiede.
Il protagonista Perry Fawcett, interpretato da uno stoico e convincente Charlie Hunnam, la moglie Nina Fawcett, una Sienna Miller incantevole e dallo sguardo indimenticabile, il caporale Henry Costin, un Robert Pattinson sempre più a suo agio con interpretazioni di spessore anche se da spalla, e il primogenito di Perry, il nuovo “Spiderman” e astro nascente a tutto tondo Tom Holland, sono i personaggi principali su cui Gray costruisce il suo originale “period drama” avventuroso. Tutti gli attori si dimostrano molto abili nell’interpretare le contraddizioni dei loro personaggi e assecondare il “sense of wonder” che permane anche nei momenti più confidenziali del film.
La regia di James Gray è come sempre impeccabile con movimenti di camera armonici e prospettici sia quando il rappresentato è il più bello e variegato dei paesaggi sia quando le luci e le ombre si posano su figure e piccoli dettagli di una stanza. L’attenzione è maniacale nella ripresa delle espressioni dei volti e delle movenze dei corpi, soprattutto nelle sequenze più frenetiche, nonostante il registro adottato sia quello di lasciar trasparire il minimo indispensabile per le emozioni personali.
Un aiuto eccezionale arriva dalla fotografia di Darius Khondji che allontana qualsiasi tentazione di edulcorazione e, attraverso un sapiente uso di chiaroscuri a seconda dell’esito desiderato, immerge e distanzia lo sguardo degli spettatori dall’azione. Una sensazione di stordimento e assuefazione al colore (vigoroso) della realtà e alla perdita stessa di quella lucentezza quando il buio (e la disperazione conseguente) avanza inarrestabile. Troppe le sequenze memorabili per ricordarle in questo contesto ma mi è obbligo segnalare almeno la meravigliosa scena finale dell’opera, riassuntiva e allegorica dell’eccezionalità del lungometraggio.
“Civiltà Perduta” è quel tipo di cinema a cui purtroppo non siamo più molto abituati e che mi auguro possa tornare ad avere il successo che merita. Un cinema che non fa uso delle regole dell’intrattenimento commerciale moderno ma si alimenta della radicalità della visione, della rappresentazione “fisica” dell’umana grandezza/fragilità e di una epica simbolica di fin troppi ambizioni, comportamenti e rimozioni presenti in tutti i nostri giorni. James Gray si conferma sui suoi vertici assoluti obbligandoci ancora una volta a comparazioni con grandi autori quali Herzog, Lean e, in questo caso come non citarlo, Coppola.