Ci sono dischi talmente inutili da far apparire Other Voices dei Doors come pietre miliari nella storia della popular music. Se ne potrebbe stilare un elenco smisurato, la cui unica utilità sarebbe tuttavia quella di fare incazzare un bel po’ di gente; vero è che la cosa potrebbe anche essere infinitamente spassosa - voglio dire: esiste qualcosa di più esilarante di qualcuno che si incazza perché i suoi gruppi preferiti vengono classificati come “inutili”? I Doors, infatti, non li ho citati a caso: essi vantano una schiera di fan tra i più talebani - e spesso insopportabilmente talebani - mai visti. Oltre, ovviamente, a un bel po’ di dischi inutili.
Ma i fan dei Deacon Blue? O meglio: esistono ancora fan dei Deacon Blue oltre le mura di Glasgow? Quando, nella seconda metà degli anni ’80, io stesso rischiai di diventare un fan dei Deacon Blue, le ragioni erano più che fondate. Raintown (1987) fu un debutto, se non folgorante, quanto meno bellissimo nella sua piena consapevolezza sophistipop - la stessa consapevolezza che due anni prima aveva reso Steve McQueen dei Prefab Sprout una di quelle opere per cui vale la pena di vivere - e il successivo When The World Knows Your Name (1989), che conteneva “Real Gone Kid”, il loro brano probabilmente più noto, fu una conferma quantunque nulla di nuovo portasse in dote. Poi – e so che qui non sarete tutti d’accordo – ebbe inizio il declino artistico, con una serie di album che riuscivano ad essere sempre uguali a se stessi - perfino laddove veniva tentata qualche “sperimentazione” -, ma non quello commerciale: inanellarono infatti una serie di successi in terra d’Albione fino al 1994, anno in cui avvenne il primo scioglimento.
Da qui in poi, la storia dell’ensemble scozzese si fa piuttosto frastagliata, tra silenzi, ritorni e veri drammi (la morte del chitarrista e membro fondatore Graeme Kelling nel 2004), ma anche poco interessante, per cui fast forward e arriviamo a City Of Love.
Che di interessante, diciamolo subito, non ha nulla e già nel titolo ricorda una stucchevole prima pagina di Repubblica o dell’Huffington Post. Undici modestissime canzoni, pateticamente sentimentali e pateticamente orecchiabili, di quelle da cantare con pathos nelle arene assieme a Rocky Ross e Lorraine McIntosh, tenendosi abbracciati e puntando gli accendini, anzi i cellulari verso un cielo ingrigito dallo smog. Tanto amore, dunque, e tanta speranza, ma anche tanta nostalgia e soprattutto una smisurata paraculaggine mascherata da freschezza che si traduce in un maldestro tentativo di rinverdire i fasti di un tempo.
Sono stato un po’ troppo cattivo, dite? Be’, provate ad arrivare in fondo alla spaventosa nenia di “A Walk In The Woods”, per scegliere un pezzo a caso, senza sentirvi come il jester dei Marillion sulla copertina di Fugazi; provate a tenere a freno l’istinto omicida mentre vi martoriate i coinquilini inguinali con la stucchevole melassa di “Weight Of The World”; provate a non farvi venir voglia di mollare un gancio in faccia al primo che vi passa accanto mentre avete in cuffia “Keeping My Faith Alive”, con quel bridge pacchianissimo e quel ritornello davvero insopportabile – provate, provate.
Fuggite a gambe levate, finché siete in tempo, dalla Città dell’Amore piena di sole e speranza. Quella piovosa è infinitamente più affascinante. E vera.