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REVIEWSLE RECENSIONI
20/09/2024
The WAEVE
City Lights
City Lights , il nuovo album del progetto The Waeve, che vede intersecarsi il talento di Rose Elinor Dougall (voce e compositrice, ex Pipettes) e Graham Coxon (cantante, chitarrista e compositore dei Blur), è disco accuratissimo e a tratti davvero meraviglioso, che non ha paura a mostrarsi nudo nella sua spontaneità e trae forza dalla sua energia vitale, che quando incontra il talento del duo, s'innalza al cielo portandoci con sé.

Ci eravamo lasciati con la gratitudine per una storia sbocciata e raccontata. Il felice esordio dei The Waeve (qui la nostra recensione) era spiccato tra gli ascolti come una collaborazione pienamente riuscita, una continua scoperta di risultati differenti con il cambio di dosaggio degli ingredienti.

Qualcosa è cambiato in diverse direzioni, è maturato e diventato apparentemente altro, ma anche oggi, con il nuovo City Lights, uscito per la britannica Transgressive Records, siamo qua a tessere le lodi di Rose Elinor Dougall (voce e compositrice, ex Pipettes) e Graham Coxon (cantante, chitarrista e compositore dei Blur), sempre coadiuvati dal fido James Ford, che nel disco precedente avevamo definito l’eroe nascosto al mix e alla co-produzione.

Graham Coxon e Rose Elinor DougalI scrivono e suonano tutto, aspetto che rende spesso difficile capire chi faccia cosa, ma che da ancora di più un senso al progetto e al disco. Il risultato, le frequenze, le emozioni da cui si viene investiti sono importanti a prescindere da dove arrivino e dal fatto di conoscerne l'esatta provenienza. Detto questo, ci sono però anche dei marchi riconoscibilissimi che, specialmente nel caso di Graham, saltano alle orecchie in maniera evidente ed emozionante almeno per il sottoscritto: un suono, un graffio di chitarra in quell’armonia altalenante e più ampia dello spettro abituale di intervalli che fa sorridere sotto i baffi, perchè si è riconosciuta al volo la mano e la mente di chi l'ha generata.

 

"City Lights" apre il disco e si è già alla presenza di uno dei tre singoli (assieme a "You Saw" e "Broken Boys") che sono stati la valvola di sfogo in attesa dell'uscita dell'album. La title track mette subito in chiaro la freschezza sonora: un fill di batteria dal sound grosso e ambientale introduce un suono solido da cui spicca il riff di basso in pieno stile eighty'n'british e non so se pensare più a John Taylor o Mick Quinn dei Supergrass, fatto sta che è un piacere.

Riff di synth in accordi dissonanti, che hanno reso iconica la scrittura di Coxon, si sposano con un fill di batteria sui primi due quarti della terza battuta, un posto non abituale, dove il giro prende un insperato respiro e ricomincia più carico di prima. Sembra che l’intro non finisca mai quando riparte il secondo tema dal sapore appena evoluto. Il vigore di questo inizio strumentale è sorprendente e coraggioso.

Tocca alle parole e alla melodia incastrarsi in quegli accordi e lo fanno in maniera talmente semplice da sembrare orecchiabili e pop. Quando parte il coro dopo il primo ritornello, infatti, me lo canticchio praticamente in diretta, così come sullo stesso momento traslato al finale, emerge un sapore anni Ottanta e appena nostalgico, merito della tessitura del pad sintetico e ancora dell’armonia ben costruita. Il tutto in un’atmosfera notturna, nonostante sia illuminata dal titolo, come la speranza in un turbinio di emozioni casuali, tra sicurezze e insicurezze, che conseguono un incontro giusto quanto inaspettato, reso misterioso e ipotetico dalle trame notturne.

 

Il secondo singolo, "You Saw", come un perfetto passaggio di consegne, passa chiaramente dalle mani di Rose, la quale porta la calma e dilata con un intro morbido. La canzone sembra ripartire dal sapore armonico Coxoniano presentandosi come un punto d’incontro d’obbligo. Un basso sincopato e reso irascibile dall’uso di un plettro diventa il motore della strofa fino a portarci al ritornello, in cui emergono dei fiati, bravi a spuntare senza sovraccaricare l’arrangiamento del proprio sapore ma aiutandoci a svolazzare insieme alla canzone.

La voce di Graham approfitta di un abbassamento d’intenzione e prende per mano l'ascoltatore fino a unirsi alla voce di Rose, per finire insieme su quella che sembra una coda dal sapore più disteso e accattivante, col rientro del basso ostinato che ha aperto il brano e dona un carattere più denso di groove.

 

È ancora il basso a prendersi cura del portamento della successiva "Moth to the flame" e lo fa con un sound di partenza effettato e ben mischiato a un synth che lo rende meno cordoso e appena più plastico. "Moth to the flame" è una canzone di attesa, con una batteria che fa le veci di una drum machine e che cerca di muovere dinamicamente il pezzo il meno possibile, in maniera da far crescere il resto intorno a sé. La cosa sembra riuscire alla perfezione, tanto è il carisma del brano e il coinvolgimento che ci trasmette in tutta la sua calma costante e indotta.

"I Belong To...", la traccia successiva, comincia con delle arcate che potrebbero appartenere a un violoncello o a un contrabbasso, e la cosa si fa da subito interessante, grazie al sapore intenso e al battito ritmico posato fino a sfiorare la lentezza. L’ennesimo basso impregnato di chorus, i fusti che portano il tempo aiutando le voci a tenersi in piedi attaccate ad un filo, fino a stringersi e trovare il proprio stato nel ritornello “I will always be there when you’ll need me”. Una canzone di appartenenza e di sicurezza. “Happy tonight, caus’I belong to…”. La parola You comincia la strofa successiva donando un significato romantico e risolutivo, mentre nel secondo ritornello tocca alle corde della chitarra prendere le redini del momento, vestirsi di un abito vicino al western ed accompagnarci serenamente alla fine.

 

"Simple Days" è la quinta canzone e comincia annegandoci nell’ispirazione Pink Floydiana. Sono infatti i suoni della fantastica "A Pillow Of Winds", perla di Meddle, a immergerci in un momento inaspettatamente morbido e positivo. E tocca a Rose Elinor Dougall rubare lo scettro di best track alla precedente "I Belong To...", con tutto l’intreccio di sapori che il richiamo country possa apportare. Quindi c’è Neil Young, filtrato dalla bella, bellissima, melodia del ritornello, ma emerge anche Rick Wright in una sorta di richiamo Floydiano senza pudore, intrecciato al dna dei nostri. Un’autentica perla.

"Broken Boys" è incazzata e sembra prendere in prestito qualcosa da un disco dei Blur, ma paradossalmente da Think Tank, l’unico album senza Graham, forse penso a "Crazy Beat". Siamo nel campo del punk wave, del plettro in giù e della strofa che comincia e già ti cattura con la voce di Rose intrappolata in questo mood che perde sempre un po’ più di incazzatura per assestarsi in una propria identità marziale e netta.

 

Sono ancora le corde a spostarci in giro per il mondo e per i decenni e stavolta tocca a corde mediorientali, forse di una balalaika, di una mandola o di un bouzouki, fatto sta che ci spostiamo dentro Into The Wild grazie anche all’apporto percussivo e alla pulsazione grave del suono di cassa, costante e largo tanto da farci respirare la melodia appena arabeggiante di Rose.

"Song for Eliza May" emerge senza difficoltà piazzandosi nella rosa delle più belle del disco, per merito della felice ispirazione vocale e strumentale. Gli archi sono ben dosati e la vibrazione che trasmettono è giusta quanto necessaria al resto della canzone. C’è solo la partenza del brano, con gli apparati strumentali più classici, che avviene dopo ben due minuti di intro caldo e riuscito, e la cosa lascia una sensazione di sorpresa, poichè non ci si aspetta una tale dirompenza a interrompere quel flusso. Poi la melodia vocale rientra e mette tutto in asse. Cinque minuti e trentasette di canzone, la più lunga fino ad adesso. Bella.

 

"Druantia" parte con un beat di batteria dal sapore costruito ed incastrato, di quegli incastri che fregano. C’è un accento che fa sembrare di essere in ¾ seguiti da una battuta in 5 ma è solo una sensazione. Siamo pari, in 4, e il riff di basso aveva contribuito a destabilizzarci. La canzone gira, è ipnotica. Strofa di Rose, con una melodia larga che inchioda e ricorda qualcosa di meraviglioso dei Radiohead o forse ancora dei Pink Floyd di A sauceful of secret, eppure siamo in un bellissimo mondo, grazie alla stesura di arrangiamenti che funzionano, con l’organo che stende il proprio tappeto fatto di ossessivi ottavi, in questi incastri staccati di sassofoni.

Graham entra nella dose di contributo vocale nella pausa che spezza il groove e lo fa con una maniera a lui congeniale: note lunghe, melodie apparentemente semplici ma poggiate su note più lontane del previsto. La canzone continua a salire e sembra non volerne sapere di finire. Ci pensano gli archi a dare l’ultimo scalino e lo fanno entrando dalla porta principale di questo palazzo, partendo dal basso e trovando le melodie giuste nei piani alti.

"Druantia" arriva al suo culmine, si tira giù di volume e ti manca, perché è davvero il top del disco. Lo penso e ricominciano, ripartiamo dall’alto, e stavolta con l’apporto dei feedback di Coxon, cosa che rende il brano definitivamente il numero più alto dell’album intero. Sette minuti e quarantaquattro, di ostinazione, di progressive, melodie, archi e feedback chitarristici. Amen.

 

È ancora il mondo delle corde mediorientale a caratterizzare un capitolo del disco. "Girl of the endless night" ha lo stesso sapore di "Song for Eliza May" ma sembra avere un carattere meno avvolgente, quando Rose entra, però, la canzone acquista convinzione e uniformità d’intenti. C’è spazio anche per un solo di sax, usato molto meno che nel debut album ma con esiti positivi. Il brano si ferma, allarga, accordi belli, il reverbero crea il suono forse migliore del disco. Ennesima melodia forte di Rose, chitarra pungente e ispirata che aiuta la canzone a scivolare verso il fondo.

È "Sunrise" a chiudere l'album. Piano, accordi di chitarra elettrica pulita e allargata dall’ambiente: un sottofondo ideale per la voce di Graham. Rose entra nel ritornello e porta la canzone in alto; il ritornello funziona e come sempre le sue melodie sono il piatto forte. Gli archi aiutano il bastone zoppicante che sembra essere il beat scelto per la batteria, cosa che dona al brano un momento di importanza e saggezza. Ci sarà qualcosa di importante da dire. “Wider the sunrise, Over again, Brighter, the sunrise, Over again”. L’alba ampia e luminosa, ancora e ancora.

Sembra chiara la volontà di contribuire a illuminare un momento di oscurità, senza per questo descrivere il buio di partenza come una fase di difficoltà da cui uscire, quanto piuttosto come una costante a cui ci siamo abituati. Eppure si punta a fare luce e uscire dal buio per godersi il chiarore di un nuovo inizio, il che riporta piacevolmente a The nearer the fountain, more pure the strams flow di Damon Albarn, alla sua "Darkness to light", ma soprattutto alla conclusiva e meravigliosa "Particles" per quanto concerne l’uscire dal proprio guscio per ritrovare la via della vita illuminata e vissuta. Nessuno ha parlato di pandemia, eppure ne subiamo tutti gli effetti anche nel non volerne parlare.

 

City Lights porta sulle orme del percorso intrapreso da Coxon e Dougall mostrandoceli in una fase forse ancora più transitoria di quella iniziale, con delle punte molto alte, ma spesso distanti tra di loro e alternative. In altri casi però la comunicazione tra i due funziona meravigliosamente e in contemporanea e questo lascia un solco che fa bene e dona una speranza per ciò che avverrà.

The Waeve è un progetto vivo, pulsante che fa dei momenti migliori proprio quelle intersecazioni comunicative. City Lights è un disco bello, accuratissimo, a tratti davvero meraviglioso, che non ha timore di mostrarsi nudo e debole nella sua spontaneità e nel fermo rifiuto di seguire strade più fortificate, garanti di risultati più sicuri e inattaccabili; è un album spinto dalla forza di un’energia vitale che, quando funziona, s'innalza al cielo portandoci con sé.