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REVIEWSLE RECENSIONI
17/01/2020
Brunori Sas
Cip!
E allora lasciatemi dire che “Cip!” è un disco mediocre, gradevole ma scontato, privo di qualunque tentativo di dire qualcosa di ancora non detto, eccessivamente debitore ai propri modelli, eccessivamente alla ricerca di un artificio per stupire...

Probabilmente anche la carriera di Dario Brunori, nel momento in cui verrà guardata retrospettivamente, confermerà l’assunto secondo cui molto raramente, il disco della consacrazione commerciale coincide con quello dello zenith artistico. O forse questo non è vero ed è solo una bislacca teoria di quegli snob che, nel momento in cui vedono qualcuno che seguono dall’inizio, diventare improvvisamente di pubblico dominio, sentono il bisogno di staccarsi dall’opinione della massa, sentenziando che quando lo ascoltavano loro quel tale nome era decisamente molto più interessante.

Evitiamo di impelagarci in questioni troppo complesse (e soggettive, soprattutto) e cerchiamo di partire dai dati: “Cip!” è il quinto disco della Brunori Sas, un progetto che è ormai arrivato a tagliare il traguardo dei dieci anni di vita e che ha esponenzialmente aumentato la propria visibilità, passando dai piccoli locali degli esordi ai grandi club della fase intermedia, approdando poi nei teatri, in televisione (la trasmissione condotta da Dario su Rai 2 nel 2018) ed infine ad un imminente tour nei palazzetti che non ci stupiremmo se facesse risultare il tutto esaurito un po’ dovunque.

È sopravvissuto al cambiamento d’epoca, Brunori: ha esordito come uno dei nomi più brillanti del panorama Indie, quando quest’etichetta definiva tutto ciò che era considerata modernità musicale nel nostro paese; quando è diventato di moda l’hip pop, quando anche noi abbiamo scoperto la Trap e quando “It Pop” è divenuta l’etichetta del momento, sembrava che uno come l’artista calabrese dovesse scomparire, confinato ad essere uno della vecchia generazione.

E invece non è accaduto. In un mondo governato dai Social, dove un anno dell’epoca digitale ne equivale ad almeno cinque di quando c’era solo l’analogico, Brunori è riuscito non solo a rimanere a galla, ma anche a rappresentare un importante punto di riferimento. Merito soprattutto del personaggio che si è costruito, piuttosto che dei suoi effettivi meriti artistici. Detta così, potrebbe sembrare un’osservazione poco carina ma non lo è, fidatevi. Dario è simpaticissimo e genuino, non se la tira per niente (cosa al limite dell’incredibile, nell’universo del Pop italiano) ed anzi, possiede un’autoironia assolutamente autentica, di uno che ancora oggi dà l’impressione di non riuscire a capacitarsi del fatto che così tanta gente impazzisca per la sua musica. Dulcis in fundo, possiede una visione del mondo sana, tipica di un’altra generazione, totalmente slegata da quello che un mio amico si diverte a chiamare “GRU” (Grande Rincoglionimento Universale).

Detto in parole povere, Dario Brunori non è un qualunquista, non è una vittima della dittatura del politically correct e anzi, chi avesse ascoltato brani come “L’uomo nero” e “Secondo me”, saprà benissimo come abbia sempre mal digerito certe storture ideologiche.

“Cip!”, da questo punto di vista, segna un bel punto di arrivo e non mancherà di procurare nuovi fan al suo autore. Dopotutto l’abbiamo già visto all’indomani del secondo singolo, “Per due che come noi”: che cosa ha entusiasmato così tanto di quella canzone? Il suo essere una ballata pianistica con crescendo orchestrale, molto d’effetto ma anche molto scontata (di quelle che, per intendersi, ha già scritto diverse volte in passato) oppure il fatto che racconta l’amore dal punto di vista di due persone che stanno insieme da anni e che riesce ad andare oltre i luoghi comuni più mielosi e ai bozzetti da scazzo quotidiano tipici dei Calcutta e dei Tommaso Paradiso?

Ecco che allora questo quinto disco della premiata ditta diventa un inno alla vita vera, all’esistenza come dono, compresa la sofferenza, compresa la morte, all’importanza di prendersi cura gli uni degli altri, al riconoscere la bellezza del reale, che è un dato di fatto ed è indipendente dalle nostre contingenze e dai nostri sbalzi d’umore. Insomma, è una sorta di compendio di “spiritualità laica”, vivere “come se Dio esistesse” (per usare le sue stesse parole) anche se non ci si crede. Che è anche, perdonatemi la divagazione, l’unica declinazione possibile di quello slogan stucchevole e altamente modaiolo che è “Restiamo umani” (come se l’uomo, nella sua espressione autentica, fosse naturalmente capace di bontà).

Bene, se questo disco sarà apprezzato per questo motivo, sarà sicuramente una bella cosa. Peccato solo che i dischi contengano musica e che sia da questo elemento che si debba partire per giudicarli. E allora lasciatemi dire che “Cip!” è un disco mediocre, gradevole ma scontato, privo di qualunque tentativo di dire qualcosa di ancora non detto, eccessivamente debitore ai propri modelli, eccessivamente alla ricerca di un artificio per stupire, fin troppo ammiccante ai gusti superficiali di un pubblico che ha forse un’idea un po’ troppo al ribasso di quel che è una “bella canzone”.

Intendiamoci: Brunori non ha mai fatto niente di particolarmente innovativo. Ha sempre preso la canzone italiana e l’ha riletta alla sua maniera, senza peraltro aggiungere niente di che, rimanendo sempre attaccato al modello “voce, chitarra, batteria, strofa, ritornello” (nel primo disco c’erano addirittura gli accordi per cantare le canzoni in spiaggia!). Una ricetta semplice, da ritorno alle origini, ma declinata con simpatia e con una buona dose di autenticità e attitudine cazzara. Tutti dicevamo: “Cosa c’è di nuovo”? Tutti citavamo Carboni e Rino Gaetano, eppure tutti eravamo contenti, tutti andavamo a vederlo e urlavamo i testi a squarciagola. Almeno, questo ha funzionato con i primi due dischi, poi già “Il cammino di Santiago in taxi”, col suo tentativo di svoltare in senso un po’ “impegnato” aveva mostrato grossi limiti. Stessa cosa per “A casa tutto bene”, che è piaciuto tantissimo a critica e pubblico, che è piaciuto anche a me ma che, diciamoci la verità, lasciava già intravedere il fatto che, continuando su quella strada, difficilmente sarebbe potuta uscire qualche cosa di memorabile in futuro.

In “Cip!” la Brunori Sas confeziona una manciata di canzoni che riprendono la lezione di Dalla e De Gregori, che recuperano la tradizione popolare e che fanno pochissime concessioni alle iper produzioni e agli effetti. Poca elettronica, giusto laddove è strettamente necessario (il primo singolo “Al di là dell’amore” è in questo senso quello più “trattato”) e per il resto, un ricorso agli strumenti analogici, per un’impronta complessiva che suona molto live ma che, ahimè, si fa sempre un po’ confusa e pasticciata quando sale l’intensità e gli arrangiamenti si stratificano maggiormente (ma chi lo segue da tempo già lo sa: i nostri sul palco hanno sempre faticato a trovare la quadratura del cerchio). Per non parlare di quei finali singalong in stile Vasco Rossi che davvero risultano insopportabili se non addirittura irritanti. Sono brani ben scritti ma, almeno a mio parere, troppo di mestiere. Manca quasi sempre il guizzo, quel fattore in più che non fa gridare al capolavoro ma che almeno certifica il trovarsi di fronte ad una voce autenticamente talentuosa. Qui l’impressione è che i pochi mezzi a disposizione (e lo si sapeva da sempre che erano pochi) abbiano alfine mostrato la corda, producendo un disco che suona come la continuazione ideale del precedente ma molto più di maniera e molto più inoffensivo. Per carità, qualche momento interessante c’è lo stesso: “Al di là dell’amore” è carica al punto giusto ed ha un incedere che funziona dall’inizio alla fine, tanto che aveva davvero lasciato ben sperare, quando era uscita. Buone anche “Capita così” e “Benedetto sei tu”, che alzano leggermente il ritmo all’interno di un lavoro incentrato soprattutto sulle ballate (la seconda ha un attacco quasi a la Springsteen e immagino funzionerà bene dal vivo, anche se il ritornello è piuttosto imbarazzante nella sua banalità). “Anche senza di noi” è invece quella che comunica forse meglio il messaggio del disco e tra gli episodi a bassa intensità è decisamente il migliore.

Il resto, dispiace dirlo, è poca roba. Ripeto, probabilmente in questo momento parla il fan geloso che “io c’ero dall’inizio” però non mi pare così esagerato sostenere che agli esordi c’era un’intensità e un fuoco che oggi, con la sopraggiunta fama e la conseguente pressione mediatica, pare decisamente venuta meno.

Ma è il solito discorso: questo disco verrà definito dappertutto un capolavoro e quelli come me saranno brutalmente sbeffeggiati. Troppi precedenti, per dubitare che andrà diversamente.


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