Non hanno il marchio identitario delle grandi Jam band ma ogni loro concerto è lo stesso un’esperienza unica, sia per la scaletta che è diversa ogni sera, sia per le lunghe improvvisazioni con cui amano infarcire alcuni dei brani. Alla pari di altri act pure diversissimi come Motorpsycho o Radiohead, appartengono a quella categoria di gruppi le cui registrazioni dal vivo dovrebbero essere disponibili in serie su nugs.net, quei gruppi che non si possono davvero conoscere a fondo se non si esaminano in azione sul palco.
Negli ultimi tempi hanno iniziato a correre ai ripari, pubblicando su bandcamp le registrazioni di due date dell’ultimo tour, una a Parigi e l'altra ad Adelaide, come parte di un’iniziativa benefica a favore della loro Australia devastata dagli incendi estivi.
Adesso che siamo chiusi in casa da mesi e che una ripresa dei concerti non è nemmeno lontanamente ipotizzabile, Stu Mackenzie e compagni hanno trasmesso in streaming, per un giorno soltanto, il documentario che sarebbe dovuto uscire nei cinema in questo periodo, e ne hanno in seguito pubblicato quella che dovrebbe esserne la colonna sonora.
“Chunky Shrapnel” è dunque a tutti gli effetti il primo live ufficiale del collettivo australiano e pur dichiarando senza mezzi termini che, se lo scopo è conoscere il gruppo e che cosa sia in grado di combinare quando è lanciato a briglie sciolte, i due dischi menzionati sopra sono certamente strumenti più efficaci, resta il fatto che qui di motivi per godere non ce ne sono pochi.
Registrato nel corso del tour europeo, che accompagnava l’ultimo, spiazzante, “Infest the Rats’ Nest”, il disco si divide in tre parti, ciascuna di esse intervallata da una traccia strumentale inedita, che altro non è però che una breve intro di stampo atmosferico, degno tutto sommato di scarsa considerazione (è invece interessante che si intitolino rispettivamente “Evil Star”, “Quarantine” e “Anamnesis”, tutte in qualche modo riconducibili alla pandemia che stiamo vivendo).
Nell'arco dei 75 minuti di durata, viene offerto un saggio non esaustivo ma ugualmente entusiasmante di quello che i sette sono capaci di fare: si parte, sorprendentemente, con una lunga versione di “The River” (da “Float Along”, del 2013), che è una delle massime espressioni della vena psichedelica che da sempre li contraddistingue, con una parte centrale dove i nostri si lasciano andare ad un'improvvisazione di stampo lisergico.
C’è un'altra traccia da quel disco, la settantiana “Let Me Mend the Past” e sentire le sue fresche melodie d'ispirazione Soul subito dopo due bordate pazzesche come “Venusian 2” e “Hell” (che, per inciso, sono prese dal concerto di Milano) dà la cifra della schizofrenia sonora di questo gruppo e fa capire perché sia molto più istruttivo vederli dal vivo che ascoltare i loro dischi. Possono omaggiare il Thrash della Bay Area così come hanno fatto nel loro ultimo lavoro, oppure il Metal classico con “Murder of the Universe” (qui rappresentato dalla title track), oppure lo Stoner sporco e durissimo con “Polygondwanaland” (la versione schiacciasassi di “Inner Cell”, che sfocia poi nei ritmi prog di “Loyalty, con tanto di insetti di sax, è una delle cose più belle di questa registrazione) ma poco cambia, la personalità è sempre quella ed è sempre dirompente.
Degna di nota anche “Road Train”, con le sue ritmiche massicce, così come “Wah Wah”, che mostra invece il lato più giocoso del gruppo, piena com’è di ritmi saltellanti.
Superflua “Parking”, che è un semplice solo di batteria mentre il motivo di interesse maggiore per l’acquisto del disco sta senza dubbio in “A Brief History of Planet Earth”, traccia inedita da 20 minuti, catturata in tre location differenti ma mixata in maniera magistrale, come se fosse un'unica esecuzione. È di fatto una lunga Jam, che alterna suggestioni psichedeliche a ritmiche boogie, in un caleidoscopio colorato che simboleggia in un certo qual modo l'essenza della band, sfaccettata in una molteplicità di volti ma, in sostanza, devota a quell'energia che si sprigiona da un gruppo di amici che suonano assieme e che badano al tiro e alle vibrazioni, piuttosto che al genere proposto.
Bisogna vederli di persona per capire davvero. E adesso che, volenti o nolenti, siamo costretti a vivere di ricordi (li avrei rivisti a giugno al Primavera ma è meglio non pensarci), un disco come “Chunky Shrapnel” potrebbe essere l'ideale per coloro che non li conoscessero, un'utile introduzione per poi eventualmente buttarsi alla scoperta di una discografia vasta, dove non è semplicissimo orientarsi.