All’epoca dell'uscita di Chill Out appare molto riduttivo definire John Lee Hooker semplicemente una leggenda del blues, solo quasi come una tensione e torsione verso il passato. Infatti a metà anni Novanta, alla veneranda età di 78 anni (circa, poiché la data di nascita rimane avvolta nel mistero, come tante altre sue vicissitudini dell’infanzia) l’inventore di “Boom Boom” e “Boogie Chillen” risulta ancora assolutamente vitale per il genere che ha aiutato a definire per cinque decadi. E il genietto della slide guitar Roy Rogers rappresenta ancora una volta, dopo il ritorno al successo con The Healer (1989) e l’iconico Mr. Lucky (1991), la tipologia di produttore perfetto per assecondare la purezza e la spontaneità di John Lee, grazie alla scelta di registrare senza particolari overdubs e trucchetti da sala d’incisione.
Ciò che si ascolta, infatti, è blues "non distillato”, genuino, crudo, senza ornamenti. L'onestà e la vulnerabilità dell’artista soprannominato Boogie Man si denotano in maniera commovente nel suo remake di “Tupelo”, che fa venire i brividi mentre sussurra il racconto di un diluvio senza fine, accentuato da un ritornello spettrale evocato dalla sua chitarra. Una canzone che inoltre enfatizza le caratteristiche del talking blues, una forma di musica tra folk e country di cui lui è celebre rappresentante, contraddistinta da un parlato cadenzato o quasi, in cui la melodia è libera, ma il ritmo è rigoroso.
“Annie Mae” invece dà l'idea di essere ambientata in un bar fumoso, mentre Hooker duella con un'altra leggenda, il pianista Charles Brown (come dimenticare il suo “Drifting Blues”?). E colpiscono al cuore per la profondità dell’interpretazione anche le altre tracce autografe “Deep Blue Sea”, “Woman On My Mind”, “Too Young”, “Talkin’ the Blues” e “If You’ve Never Been in Love”, così intense, pregne di vita, tese a ricordare che il blues nasce come un istintivo lamento per una condizione di schiavitù e dalle sue straordinarie armonie diventa musica popolare afroamericana autentica, di straordinaria vivacità ed efficacia.
Ma quest’album non è solo un semplice (pur se profondo e azzeccato) revival, tantomeno un elementare ritrovo di ferventi vecchie glorie. C'è molto di più quando al materiale più tradizionale si aggiungono gemme come la cover di un brano con sfumature pop-r&b del calibro di “Kiddio”, vecchio successo di Brook Benton, e la meravigliosa title track, “Chill Out (Things Gonna Change)”, nata in combinazione con il chitarrista più visionario che il mondo ci abbia regalato, Carlos Santana. Una partnership sorta già in The Healer, ora rinforzata da una canzone carica di speranza, dove si assapora la certezza che prima o poi i desideri e i sogni si avvereranno, le cose dovranno cambiare in meglio.
«Un boogie di John Lee tira dentro il pubblico con la stessa forza con cui la gravità ci tiene ancorati a questo pianeta. Lui è il sound della profondità del blues, la sua influenza permea tutto. Lo sentite in “Voodoo Child (Slight Return) ” di Jimi Hendrix o nelle ritmiche dei Canned Heat. Quella roba non è altro che John Lee Hooker». Estratto da “Suono Universale” di Carlos Santana, Mondadori.
Le parole dell’autore dell’indimenticabile “Samba Pa Ti” sintetizzano con intensità il valore di Hooker, ma soprattutto evidenziano il rispetto nei confronti di un uomo umile, nato nel Mississippi, undicesimo figlio di una famiglia di mezzadri, fortemente influenzato dai canti spiritual che ascoltava alle celebrazioni nelle chiese fin da bambino, piccolo e fragile. Un uomo che ha sempre fatto del sacrificio una virtù, imparando a suonare la chitarra dal patrigno e passando intere notti a esercitarsi, a provare nuovi accordi, sempre pronto a cambiare il ritmo ai suoi pezzi tanto quanto mutava il suo umore, in un periodo in cui essere neri non significava vivere, ma piuttosto cercare di sopravvivere.
Fortunatamente gli anni Sessanta, con la riscoperta del genere per merito di artisti come Keith Richards, Clapton e, poco dopo, lo stesso Santana, sono stati un momento di gloria per John Lee Hooker, dopo tanta gavetta e numerose canzoni composte indimenticabili, oramai divenute veri e propri standard. E difatti un’altra piacevole sorpresa di Chill Out è l’intrigante medley che riprende due composizioni storiche come “Serves Me Right to Suffer/Syndicator”, con ospite Van Morrison, il quale viene letteralmente trascinato dal padrone di casa a cantare con una tensione e ferocia difficilmente in lui riscontrate.
Anche “One Bourbon, One Scotch, One Beer”, pur essendo una drinking song opera di Rudy Toombs incisa da Amos Milburn nel 1953, si può definire pietra miliare nel repertorio di John Lee: registrata da lui per la prima volta nel 1966, qui rivive a livelli alti supportata dalle tastiere di Booker T Jones, un personaggio che certamente non ha bisogno di nessuna presentazione.
Il disco si chiude con “We’ll Meet Again” una bella ballata scritta dal virtuoso musicista blues Deacon Jones (è suo il magico tocco all’organo che crea un’atmosfera da jazz club) arricchita dalla chitarra di Bruce Kaphan.
“Ci incontreremo di nuovo... non so dove, non so quando, ma so che ci incontreremo di nuovo in un giorno di sole…Continua a sorridere come sempre finché il cielo blu non farà svanire le nuvole scure in un giorno di sole”, canta tra metafore e profezie John Lee, conscio di essere vicino alla fine dei suoi giorni. Le condizioni di salute già instabili del bluesman diventano precarie verso la fine degli anni Novanta, ma lui non si arrende mai. Cammina lentamente, arriva sul palco, si siede, imbraccia la chitarra e dimentica tutti gli affanni, riesce a farlo fino ad aprile 2001, poco prima di abbandonare questo mondo in una calda notte di giugno, andando a letto e addormentandosi per sempre. “I lay down with an angel”, aveva cantato per Zucchero in quel periodo in “Ali d’oro”, uno dei brani di punta di Shake: sì, ora si riposa davvero con un angelo, il caro buon Hooker, maestro senza tempo e senza età.