Che dire dei Sixties? Sono anni in cui tutto sembra plausibile. Il jazz, stanco dell’aristocrazia squattrinata guadagnata nel dopoguerra, cerca nuovi percorsi per ritornare al grande pubblico, mentre il rock, messosi nel serbatoio il blues, aspira a diventare maggiorenne, strizzando l’occhio, almeno per quanto riguarda gli States, proprio al jazz. Tali giravolte e incroci potrebbero quasi sembrare alla fine un gatto che si morde la coda, episodi musicali fini a se stessi e senza una direzione, ma, in realtà, in questo periodo si sta vivendo uno dei momenti più fertili per la contaminazione di stili e generi, con risultati straordinari.
Scorre il 1967 e Al Kooper, oltre ad aver dato vita ai seminali Blues Project e poco prima delle mitiche Super Session con Stephen Stills e Mike Bloomfield, è alla ricerca continua di stimoli, immagina una musica nuova, un originale ibrido in grado di coniugare rock and roll, r'n'b e jazz. «Volevo creare qualcosa di diverso, che si legasse alle istanze della mia generazione, partendo comunque dalla tradizione per poi disperdermi in strade differenti, mai battute», racconta trentatré anni dopo Kooper, in occasione dell’edizione di Child Is Father to the Man in CD digitalmente masterizzata del 2000.
Il genietto multistrumentista newyorkese ha scritto una manciata di canzoni meravigliose e sente il bisogno di arrangiarle con i fiati e gli archi, per lasciar trasparire la solennità delle melodie, la loro lussureggiante ariosità; Il talentuoso bassista della West Coast Jim Felder è il primo a credere nel progetto e lo raggiunge nella Grande Mela, ove il batterista compositore Bobby Colomby e il vecchio compagno Steve Katz, cantante e chitarrista coi fiocchi, si aggiungono con entusiasmo. Ora mancano solo gli ottoni e qui il grande colpo è accaparrarsi il leggendario Fred Lipsius, pregiato alto sassofonista capace anche di dirigere e ideare gli assolo e le armonie dei vari strumenti a fiato. I giganti della tromba e del flicorno Randy Brecker, Jerry Weiss e il mitico trombonista Dick Halligan sono gli ultimi – importanti ? arrivati; inoltre ora la band ha pure un nome il quale, vista la fatica nella costruzione dell’ensemble e l’impegno profuso nelle prime incisioni, non poteva essere migliore: Blood, Sweat & Tears.
Sangue, Sudore e Lacrime vengono versati in studio nel nome di straordinari brani autografi, frutto della penna affilata di Kooper, come "My Days Are Numbered", un viaggio attraverso le sonorità della west coast, poco tempo dopo prerogativa di CSNY, tra cori e trombe celestiali, il lungo blues "Somethin’ Goin’ On", ombroso, profondo, carico di colpi di scena, e le sfarzose "I Can’t Quit Her", intrigante singolo dalle coloriture rock e "House in the Country", stramba filastrocca psichedelica, tuttavia non mancano cover splendenti rilette dagli artisti più disparati. Infatti il profumo di country folk vaporoso, reso in stile bucolico e zuccheroso, emanato da "Morning Glory" di Tim Buckley, la leggiadria barocca con accenni alla bossa nova di "Without Her", del sottovalutato Harry Nilsson, e la hit "Just One Smile", concepita da uno dei più straordinari songwriter a stelle e strisce, Randy Newman e portata al successo da Gene Pitney nel 1965, sono tutti pezzi da novanta, anch’essi inseriti in Child Is Father to the Man, debutto del gruppo pubblicato a febbraio 1968.
Fiati soul, andamenti r'n'b, arrangiamenti in chiave jazz e un innato gusto pop caratterizzano le dodici tracce presenti in una scaletta ben strutturata e architettata attentamente. Si inizia con la breve "Overture", originale recupero dell’introduzione orchestrale tipica della musica lirica e si chiude con la rilettura di un evergreen di Ben E. King, la celebre "So Much Love" scritta dall’accoppiata Gerry Goffin/Carole King, in medley con la traccia finale, intitolata "Underture". È interessante notare come lo schema studiato per quest’album, ovvero l’apertura e chiusura con uno strumentale a tema, risulti sicuramente l’ispirazione per uno dei capolavori indiscussi dell’opera rock, Tommy, pubblicato l’anno successivo.
Potrebbero essere già sufficienti questi brani a decretare la bellezza e particolarità del complesso Blood, Sweat & Tears, ma c’è dell’altro, qualcosa talmente ricco di contaminazioni da arrivare a farsi sedurre dalle vertigini del prog, in ascesa come movimento proprio in quell’epoca.
«La toccante "I Love You More Than You'll Ever Know", esperimento di rock sinfonico, è un tributo a Otis Redding e James Brown. Il testo fa riferimento alla canzone di Otis "I Love You More Than Words Can Say" e la melodia “ricorda” "It's a Man's World" di James Brown. Il 6 dicembre del 1967 Otis morì in un incidente aereo e questo mi sconvolse. La notte successiva iniziammo a registrare l'album. Insistetti per incidere per prima, subito, proprio "I Love You". Nessuno obiettò. L'assolo di sax di Freddie Lipsius e le atmosfere chitarristiche di Steve Katz sono frutto di un minuzioso lavoro di overdub, poi è arrivato il momento di metterci sopra una voce e mi sono fatto avanti».
"I Love You More Than You'll Ever Know" è di una bellezza trascendentale, attinge per testo e struttura dal blues, custodisce la tristezza per un terribile evento, come raccontato da Kooper, e la trasforma nel lamento di una storia d’amore al capolinea, ove il protagonista si sente trascurato, dimenticato dalla consorte, a cui ha dedicato tutti gli sforzi. «Quando non guadagnavo molto, sai dov'è finito il mio stipendio. Sai che l'ho portato a casa da te, piccola. E non ho mai speso un centesimo», narra il protagonista ormai avvolto nella crisi sentimentale, tuttavia convinto di non esserne la maggiore causa, “È questo il modo di andare avanti per un uomo? Pensi che voglia che la sua piccola amata se ne vada? Ti amo Baby, più di quanto potrai mai sapere, più di quanto tu possa mai sapere…”.
Ironia della sorte, il gruppo caccia il suo leader, definito “troppo oppressivo”, nonostante il successo di questa canzone, di cui rimane indelebile la divina e drammatica interpretazione dell’irraggiungibile Donny Hathaway, e l’ottimo risultato del disco sia in termini di vendite, sia a livello di giudizi da parte della critica (Child Is Father to the Man viene lodato dai magazine più autorevoli e classificato dai giornalisti di settore come precursore di un nuovo modo di concepire la mescolanza di generi).
In realtà le cause della “rottura” sono molteplici: freme, innanzitutto, il desiderio di avere un altro cantante, in grado di modulare al meglio e non in maniera univoca l’espressività della band; non si tratta, poi, solo di gelosia fra i membri (soprattutto Colomby mal digerisce l’eccessiva celebrità di Kooper all’interno della formazione), ma di una vera e propria ribellione a livello artistico, poiché dal produttore John Simon, scelto pure come arrangiatore degli archi sovraincisi, vengono considerate praticamente e unicamente le composizioni del tastierista newyorkese. In effetti solo "Meagan’s Gipsy Eyes", scritta da Katz, fa capolino in scaletta e viene addirittura inserita "The Modern Adventures of Plato, Diogenes, and Freud", sempre ad opera di Al, contro il parere del resto dei compagni, assolutamente contrari alla pubblicazione. Ma, si sa, spesso da smisurate tensioni nascono meraviglie incontrastate.
I Blood, Sweat & Tears proseguono la carriera perdendo quindi una grossa fetta del potenziale creativo, ma riescono a rimarginare la ferita artistica per merito dell’arrivo del vulcanico vocalist David Clayton-Thomas. Così l’omonimo secondo lavoro incrementa il riscontro commerciale e, fra un cambio di musicisti e un altro, si sussegue una decina di LP fino all’inizio degli anni Ottanta, per un ensemble tuttora in attività, anche se adesso allestito e operante senza la presenza di alcun membro originario.
Chissà cosa sarebbe successo se lo spirito e l’entusiasmo iniziali fossero rimasti senza profondi scossoni di line-up, semplicemente con aggiunte e aggiustamenti di inventiva. Rimane da incorniciare certamente un debutto storico, che ha influenzato per decenni i gruppi a venire, e ancora esercita un notevole fascino. Inoltre, a proposito di genialità e intuizione, giova ricordare pure la mitica copertina, antesignana del photoshop, divertente e inquietante nello stesso tempo: un trucco fotografico eloquente abbinato al titolo, che mostra ciascuno dei membri della band seduto o in piedi con versioni di se stessi a grandezza di bambino. Quelli erano i giorni!