Se c’è un gruppo che più di altri ha sofferto la pandemia, sono proprio i Cheap Wine. La band pesarese costituisce da ormai 25 anni una strana anomalia nel nostro panorama musicale: non hanno un’etichetta, non hanno un ufficio stampa, non hanno un’agenzia di Booking (ne avevano presa una poco prima delle varie chiusure, non so poi come sia finita), fanno tutto loro. Da 25 anni registrano dischi e soprattutto suonano dal vivo, centinaia e centinaia di concerti da un capo all’altro dell’Italia, con una fan base affezionata in ogni regione. Il gruppo dei fratelli Diamantini testimonia una verità che nell’ultimo periodo pare essersi persa, almeno tra gli artisti del nostro paese: vuoi diventare qualcuno? Devi stare sul palco e riuscire a farlo bene.
Loro (l’ho detto più volte, visto che li racconto da parecchio tempo ormai) pagano probabilmente lo scotto di non essere nati in uno dei tanti paesi dove vivere di musica non è considerato un sogno da bambini; allo stesso tempo, muoversi tra Roots, psichedelia settantiana e Paisely Underground in uno scenario come quello italiano, non è di per sé garanzia di successo.
Faces, l’undicesimo disco in studio, è uscito a fine 2019. Da lì in avanti c’è stato il solito tour, che non è purtroppo arrivato dalle mie parti per problemi logistici. Il Covid, qualche mese dopo, ha fatto il resto. Il periodo di inattività forzata è stato decisamente provante per un gruppo che di fatto vive di concerti. L’estate del 2020 li ha visti suonare per qualche serata sporadica, poi la pausa è ripresa.
Quella di questa sera è dunque la prima data milanese dopo due anni, la prima occasione in assoluto per suonare le canzoni di Faces, oltre che un’occasione privilegiata per riabbracciare un pubblico che da queste parti è sempre stato particolarmente rumoroso e affezionato.
La cornice prescelta è una garanzia: lo Spazio Teatro 89, un luogo accogliente e dotato di un’acustica eccezionale, sede negli anni, oltre a tanti concerti dei Cheap Wine, anche di tantissime proposte legate al rock americano. In un periodo in cui i posti per suonare sono sempre meno, una venue del genere sarebbe da tenere maggiormente in considerazione.
Si parte puntuali alle 21.30, dopo che nei minuti precedenti ci avevano allietato le note dello splendido (e non troppo considerato, direi) Bluenote Café di Neil Young. I cinque salgono sul palco in maniera discreta, proprio mentre si spingono le luci. L’attacco è affidato a quella “Made to Fly” che apriva Faces, un brano insieme energico e cupo (come cupo è gran parte di quel disco), che rimane sempre in tensione, senza esplodere mai. A ruota, dopo i saluti di rito, “Naked” e “Full of Glow”, due dei brani più diretti del precedente Dreams.
Band come al solito rodata, i mesi di inattività non sembrano aver lasciato segni, le prime battute li evidenziano come la macchina da live che sono sempre stati. Ogni loro show vive normalmente dell’alternanza tra episodi compatti e più propriamente rock ed altri dove ad essere in primo piano sono le componenti più intimiste e psichedeliche, dove le lunghe code strumentali evidenziano la voglia che questo gruppo ha sempre avuto nel lasciarsi andare all’improvvisazione, in un dialogo incessante tra il chitarrista Michele Diamantini e il tastierista Alessio Raffaelli.
È un lato che negli ultimi anni si è andato un po’ stemperando (ricordo concerti in passato in cui la durata media di ogni brano era più consistente) ma questa sera sembra che le ballate siano in prevalenza: se si eccettuano le battute iniziali, una roboante e sempre amatissima “Reckless” e una convincente “The Great Puppet Show” (forse l’unico brano di Faces ad essere aperto e solare) il resto del concerto è stato caratterizzato da quiete e contemplazione, come se dopo tutta questa stasi il ritorno al palco dovesse essere vissuto come un qualcosa di solenne, da assaporare a piccoli sorsi.
Bellezza a profusione con la dolcissima “I Like your Smell”, con la fisarmonica di Alessio in primo piano, tra le canzoni più rappresentative di quel “Crime Stories” che, per quanto mi riguarda, è ancora oggi uno dei loro lavori migliori. Dallo stesso album è arrivata anche “Behind the Bars”, altra superba ballata suonata con una coda epica di pianoforte e chitarra, in una sorta di crescendo a la “Jungleland” che è una delle cose belle che succedono sempre, quando il gruppo è ispirato e lanciato a briglia sciolta.
Ma è anche un concerto dove, in virtù del tempo passato e nella consapevolezza di avere dalla loro un repertorio sterminato, decidono di ripescare una manciata di canzoni che da tanto tempo non proponevano in setlist: ed è così che riascoltiamo “Lovers’ Grave”, non più suonata dal tour di “Based on Lies”, oppure “Naked Kings”, di cui addirittura non ricordavo più l’esistenza. O ancora, una meravigliosa “Utrillo’s Wine”, un brano che su “Beggar’s Town” era praticamente piano e voce mentre qui viene proposto in una bella e delicata versione full band. Clamorosa poi l’esecuzione di “Tryin’ to Lend a Hand”, il brano acustico che chiudeva Crime Stories, suonata pochissimo già ai tempi del tour. È probabilmente l’highlight assoluto del concerto, memorabile per intensità e impreziosita da una coda strumentale davvero notevole.
Il nuovo album non viene suonato troppo, dato che dopo due anni la novità è in effetti svanita; molto bella comunque la title track, che in sede live diviene leggermente più aggressiva ma che non perde il feeling generale di sospensione. E poi c’è “Head in the Clouds”, lenta, scura e ipnotica, uno dei volti preferiti che i Cheap Wine amano dare alla propria musica.
Chiusura come da copione con “Dreams”, un brano che sa evocare speranza, una luce rara in una scaletta che ha tutto sommato conservato tonalità scure. C’è il solito finale suggestivo con i cinque che abbandonano il palco uno dopo l’altro, lasciando per ultimo Alessio Raffaelli, intento a tenere vivo il giro di tastiera che costituisce il tema portante del brano. Se ne va anche lui, alla fine, ma la melodia aleggia ancora nell’aria, grazie al campionamento.
Sarebbe già di per sé una conclusione perfetta ma c’è troppo entusiasmo e dopo un paio di minuti eccoli di nuovo, con l’ormai classica “The Fairy Has your Wings”: sono passati otto anni ma è divenuta un cavallo di battaglia probabilmente già dalla prima volta che venne eseguita, proprio qui allo Spazio 89. La sua drammatica parte iniziale, la sua progressione strumentale, la sezione ritmica che esplode assieme alle chitarre, il pianoforte che fa da contrappunto, l’assolo finale di Michele: tutti elementi che contribuiscono a creare un affresco musicale ad alta suggestione, senza dubbio uno dei più grandi brani dei Cheap Wine.
Il prossimo passo sarà Yell, il nuovo disco in uscita ad ottobre e realizzato tramite crowdfunding, la cui copertina, disegnata da Alessandro Baronciani, è stata resa pubblica qualche giorno fa. Hanno promesso che verranno a presentarlo qui ed è superfluo dire che non vediamo l’ora.
Nel frattempo, auguriamo loro un’estate piena di concerti, per poter recuperare tutto il tempo perduto.