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REVIEWSLE RECENSIONI
24/03/2020
Phantogram
Ceremony
Il ritorno del duo statunitense, dopo quattro anni di silenzio, con quello che potremmo definire il disco della normalizzazione

Originari di Saratoga Springs (New York), i Phantogram (al secolo Josh Carter e Sarah Barthel) hanno rappresentato nell’ultimo decennio una delle realtà più interessanti del panorama indie statunitense.

Dopo qualche anno di silenzio, succeduti al chiacchierato Three (2016), album che aveva scalato le classifiche di Billboard Alternative fino ad aggiudicarsi la terza piazza, all’inizio di marzo il duo è tornato sulle scene con la pubblicazione di questo nuovo Ceremony. Un disco pensato a lungo e sofferto, nato in un momento difficile per la band (la sorella di Sarah Barthel si è tolta la vita un paio di anni fa) e figlio di molti dubbi, soprattutto sulla tenuta qualitativa delle composizioni dopo l’inaspettato successo del capitolo precedente.

Superati il lutto e le perplessità sul futuro della band, Josh Carter e Sarah Barthel sono tornati a scrivere musica, si sono chiusi in uno studio a Laurel Canyon, e hanno inciso Ceremony, un lavoro segnato da liriche ambigue, ma con ovvi riferimenti esistenziali, che ne fanno il racconto di un percorso di rigenerazione, dal dolore e dallo smarrimento a una ritrovata normalità.

Ceremony è un disco in cui l’elettronica ha come sempre un ruolo preponderante, talvolta anche ingombrante (l’incedere martellante dell’inquietante In a Spiral, pervasa da sussulti industrial), ma che riesce comunque a trovare una buona sintonia con gli strumenti tradizionali, creando un magma sonoro ondivago, eppure incredibilmente coeso, grazie ai pattern di batteria o ai riff di synth che avviluppano in un abbraccio ossessivo quasi ogni singolo brano.

Dear God apre il disco con un campionamento soul, plasmandolo in una melodia solare, che è probabilmente la cosa più vicina a una canzone allegra mai scritta dalla band. Segue un filotto di brani brevi (tre minuti o poco più), urgenti, lineari, che trovano ganci melodici immediati, ma perdono punti sotto il profilo delle suggestioni sonore a cui il duo ci aveva abituati in passato (una canzone come Love Me Now, ad esempio, viene imbrigliata da un’unica idea replicata allo sfinimento).

Il disco cresce, però, nella seconda parte, che regala i momenti migliori, sia in termini di pathos che di songwriting. Let Me Down è attraversata da tensione palpabile, Glowing è un’elegia oscura, in cui l’ottima prova vocale della Barthel, ricorda di primo acchito Billie Eilish (fan dischiarata della band), mentre Gaunt Kids, conturba per il suo beat lunare e il doppio cantato straniante, per poi sciogliersi in una ballata per pianoforte, che suona al contempo sinistra e romantica.

Il vertice della scaletta è però la title track (l’unica che dura più di cinque minuti) posta al fine di Ceremony: il cantato ipnagogico della Barthel e la ritmica cadenzata mutuata dal trip hop crescono deragliando, in uno sfarfallio di tastiere, verso una vorticosa coda elettrica. A dimostrazione che quando i Phantogram scelgono di misurarsi con strade più impervie e recessi più bui, riescono a stare al passo con il loro indubbio talento. In Ceremony, purtroppo, non tutto fila come ci saremmo aspettati: non un brutto disco, ma, tolti alcuni episodi, certamente affetto da un processo di “normalizzazione”.


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