A cinque anni di distanza dalla Palma d'oro di Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), dopo l'intermezzo breve di Mekong Hotel, il thailandese Apichatpong Weerasethakul torna con un nuovo lungometraggio, questo Cemetery of splendour che, proprio come già accaduto con il più celebre predecessore, raccoglie un plauso pressoché unanime da parte della critica che vede nel regista del Khan Kaen una voce originale e di certo fuori dal coro, portatrice di un cinema lontano dagli schemi ai quali siamo abituati, o più semplicemente lontano dagli schemi tout court nonostante non manchino temi e segni di stile ricorrenti all'interno delle opere di Weerasethakul.
Dobbiamo dire che quella di chi scrive non è di certo la penna più adatta per promuovere ai non ancora convertiti il cinema di Weerasethakul, vuoi per una conoscenza e una frequentazione ancora molto, molto parziale della sua opera, vuoi per una sensibilità personale che non ha visto scoccare la scintilla con il cinema del regista di Bangkok, nemmeno nel caso del suo film più premiato e in ogni caso superato (parere personale) da questo Cemetery of splendour, per alcuni versi più fruibile (in senso molto relativo of course) e anche più intrigante, magari meno interessante nei luoghi e nella messa in scena ma ancora dotato di una potenza immaginifica capace di far sprofondare lo spettatore in un'altra sensibilità di approccio alla vita (e alla morte) da tenere in altissima considerazione.
Nella zona di Khon Kaen, area nord della Thailandia, c'è un piccolo ospedale ricavato in quella che sembra essere un'ex scuola: pochi letti, scarse attrezzature, un dottore, qualche infermiera, diversi volontari. Questo ospedale è occupato da soldati che soffrono di un peculiare disturbo che li porta a dormire per gran parte della loro giornata; questi uomini non hanno ferite gravi visibili eppure, quando svegli, sono preda di improvvise crisi narcolettiche che li riportano a letto, costretti a urinare tramite catetere, sottoposti a massaggi lenitivi e assistiti in tutto e per tutto.
Tra le volontarie spiccano la signora Jen (Jenjira Pongpas Widner) sposata a un americano, Richard (ma un europeo sarebbe stato meglio, pare siano più ricchi), e la medium Keng (Jarinpattra Rueangram) capace di entrare in contatto con i soldati mentre sono nel mondo dei sogni.
Sarà proprio Keng a rivelare a Jen che il luogo in cui ora sorge l'ospedale in passato era il sito di un importante palazzo di un regno antico, sono le anime dei guerrieri di quel tempo, secondo Keng, ad assorbire tutte le energie dei soldati odierni, al fine di alimentare la loro eterna battaglia. Intanto, nei brevi momenti di veglia e lucidità, Jen stringe amicizia con il soldato Itt (Banlop Lomnoi) e fa strani incontri nel suo tempo libero.
L'ospedale di Weerasethakul sembra un'oasi di pace all'interno di un mondo che si muove, a rappresentarlo le ruspe che scavano e scavano (non si sa bene per cosa) lungo l'arco di tutto il film. A questi elementi molto terreni, esplicitati anche dalla malattia alla gamba della protagonista, un ferita molto fisica, dalle lampade che modificano la cromia dell'immagine, si contrappone uno dei temi prediletti dell'autore, quello spiritismo già visto con Lo zio Bonmee, unito al convergere del mondo dei morti in quello dei vivi.
Lo spirito creatura di Bonmee è qui sostituito dalle due dee, all'apparenza due ragazze normalissime (Sujittraporn Wongsrikeaw e Bhattaratorn Senkraigul) che appaiono, in un incontro surreale ma dai toni pacati e ben inseriti nella quotidianità, in un momento di relax a una serena Jen. Poi la medium, il racconto dei vecchi guerrieri, in un'unione tra passato e presente, tra vivi e trapassati, che dona al film un tocco onirico caratterizzato però da un senso di sospensione e serenità che ammanta l'opera dall'inizio alla fine.
Tutto è pacato, non c'è struttura stretta, il racconto è libero, ondivago, quello di Weerasethakul è un cinema di sensazioni, di pace, di immagini (spesso fisse), nel cinema del regista thailandese il mondo può cambiare d'improvviso senza nessun mutamento esteriore, senza strappi, solo nella testa e nel cuore di chi lo vive, di chi lo sente, di chi lo guarda con occhi profondi.
È necessario sintonizzarsi su una sensibilità altra per empatizzare con opere come Cemetery of splendour, processo non sempre facile e non adatto a chiunque, film come Cemetery of splendour sono esperienze da provare, qui non garantiamo a tutti la certezza di uscirne soddisfatti.