Correndo sul pezzo si finisce per lasciare su strada legni pregiati e fotografie di paesaggi che avevano davvero tanto da dire. E non li abbiamo ascoltati. Stando sempre sul pezzo alla fine ci viene il fiato pesante e quel sapore di ferro-sangue alla bocca. E sempre che qualcosa di bello l’avremo perduto, strada facendo. Ma poi mi chiedo: tutta questa strada di corsa ma per arrivare dove? Ed il quando è davvero così importante? Il mondo che si chiude dentro questo disco è una sospensione antica di cinematografia anni ’60, forse anche qualcosa prima e non tanto qualcosa dopo se pure l’elettronica che arriva mi riporta alle straordinarie tessiture dei Mokadelic. Ma sono solo sensazioni. Le mie…
È un’astrazione industriale disegnata da mano artigiana che guarda alla fine del benessere e delle cose ormai intese come unica risorsa ed è proprio alle ceneri che cerca il suo punto di forza, unico centro nevralgico da cui ripartire per rinascere a nuova vita. C’è l’uomo come unico centro nella scrittura di questi inediti che dalla chitarra sono pensati ma che poi trovano vita anche in un combo di viola, violoncello e violini, trombe e flicorni, la batteria e vibrafoni, elettronica immancabile ma sottovoce che non disturba e non copre.
Ho incontrato la musica di Andrea Faccioli per caso, a parte qualche credito di riconoscenza in dischi più popolari come quelli di Vasco Brondi e Le Luci della Centrale Elettrica, dei Julie’s Haircut, di Stefano “Cisco” Bellotti e tanto altro. Ma la sua chitarra è a se stessa che deve pensare e in questo nuovo disco che ho pescato dalla storia dopo quasi tre anni di distanza dalla sua pubblicazione, penso valga il merito di essere sottolineato ancora. E non parliamo di un lavoro di sola chitarra acustica, anzi: sono dipinti in cui la colonna portante non vuol essere sfacciata, così come la nascita, l’origine e il vero unico filo conduttore non è mai così scontato. E se dalla chitarra parte ogni cosa è poi al suono corposo di arrangiamenti finissimi che il tutto si completa in un unicum dal sapore gustoso, da melodie ricche di forza visionaria e dal disco che nel suo complesso ha il dono della narrazione. Omaggi di stile, da Nick Drake ripescando quel finger picking di “Cello Song” fino alla celebrazione del cinema di Elvira Giallanella. E sono trame che sottendono visioni libere - che ognuno abbia il coraggio di raccontarsele. Si intitola “Non ce la farai, sono feroci come bestie selvagge” questo terzo disco di Andrea Faccioli che in arte, da solista, si fa conoscere con il moniker CABEKI.
Forza e verità davvero importanti che rischiano di non avere tempo e classificazione… tutto questo servirà ai burocrati della carta stampata. E noi altri che viviamo di cuore, facciamo girare dischi come questo ogni volta che abbiamo bisogno di altro oltre il bianco intonaco delle nostre pareti di casa. E ad ascoltarlo, avere altro è una promessa soddisfatta a prescindere.
Ho ascoltato tantissimo questo disco prima di leggerne le note dal presskit perché trovo che sia come un foglio bianco con lievi tratti di matita che disegnano contorni modulabili e immaginifici, scorci di qualcosa che ognuno di noi può completare a proprio piacimento. E allora la mia prima domanda è: volevi che accadesse questo, cioè che questo fosse un disco diverso per ciascuno di noi o miravi comunque a dare delle linee guida ferme e decise per la comprensione univoca?
Esatto, volevo che fosse un libro aperto. In generale mi piacciono i dischi che non dicono tutto ma che hanno dei tasselli bianchi. Mi piace vedere l'ascolto della musica come un processo attivo e non passivo. Mi piace scoprire più che subire. E così mi piacerebbe fossero i miei dischi: poter scoprire diversi strati e particolari ad ogni ascolto.
In questo disco, forse, accade la grande trasformazione delle idee: brani scritti per la sola chitarra che prendono derive altre, grazie ai vari musicisti che intervengono, ai vari dialoghi, ai vari stili. Quanto ti sei distanziato dalle idee originarie? Quanto è divenuto altro questo disco?
Di solito parte tutto dalla chitarra, e mentre esce il brano mi immagino già gli arrangiamenti. Quindi già prima di nascere diventa altro, o comunque tendo ad altro. Anche se il mio sogno sarebbe fare un disco per sola chitarra.
Ho spesso lavorato con chitarristi e a loro ho sempre chiesto: uno strumento solo come una chitarra, come in questo caso, quanto limita ad un certo punto la scrittura e l’espressione? E quindi in qualche misura hai sentito la necessità di avere altro a corredo per ovviare a queste limitazioni?
La chitarra è il mio strumento, quello che ho studiato e so suonare. Non saprei scrivere con altro, così di getto. Gli arrangiamenti sono effettivamente un supporto, un orpello o un abbellimento. Come ho detto prima, in questi miei primi tre dischi ogni brano per chitarra è nato sempre con in mente un arrangiamento, semplicemente perché non lo consideravo un brano per sola chitarra. Doveva essere qualcosa di più organico, un divertissement volendo.
Parlami del titolo: chi sono le bestie selvagge feroci? Chi è che li sta sfidando…?
L'origine del titolo è molto ironica: era un messaggio che mandai a mia moglie, la quale doveva affrontare il mercato della frutta e verdura dietro casa nostra. Le bestie selvagge sono le vecchine che senza pietà saltano la fila, ti insultano perché si sentono offese per qualche ignota ragione. Poi da lì la frase mi piacque molto, e le ho dato un significato più esistenzialista. Parla di disillusione fondamentalmente. Poi anche qui ognuno può leggere quello che vuole, andrà sempre bene.
Il primo ascolto, supportato dalla lettura e rilettura di questo titolo, mi ha trasportato nel grande romanzo di Cormac McCarthy “La strada”. La fine del mondo dal quale riprendersi, il “Disgelo” e la rinascita, lieve, sottovoce, un piccolo focolare che va custodito…
All'incirca il significato è quello: ha un senso circolare, come in molte filosofie. Una nascita, la lenta distruzione, e la fine, l'oblio e di nuovo una rinascita.
Parli di un mondo immaginario, parli di questa realtà non reale ma allo stesso tempo custode della verità della vita di ognuno di noi. Come se nel recarci a pensare ad altro ci liberassimo dai tanti vincoli e pregiudizi che sono alla base della quotidianità industriale e politica di questa nostra attualità. Dammi la tua chiave di lettura…
In realtà i titoli sono molto reali e concreti. Parlano di qualcosa di reale, che è il ciclo della nostra esistenza, nel senso di esseri umani, abitanti di questo pianeta. In questo momento storico siamo dentro la parabola discendente, secondo me. Ma questo non vuol dire che sia tutto negativo, anzi: dalla fine nascono nuovi inizi. Ci sono state generazioni che hanno creato distruzione, e fra queste metto anche la mia, attuale quarantenne. Confido molto nelle nuove generazioni, le più giovani. Gli attuali universitari, i ventenni, i trentenni e appunto anche i quarantenni li vedo molto disillusi, sconfitti. I più giovani, i liceali, sono molto più consapevoli e decisi, e quindi, spero, anche decisivi.
Ho riconosciuto l’omaggio a Nick Drake… una preghiera laica che invita a seguire i sogni per lasciare il mondo alla sua tomba. L’hai scelta per tutto questo scenario che culla?
Bravissimo. Lui è uno dei miei amori chitarristici. Con lui sono passato dalla chitarra classica al finger picking. Il mio è semplicemente, appunto, un omaggio.
Parlami di “Umanità”: questa composizione nata per sonorizzare il film di Elvira Giallanella… il come poi finisce nel disco è chiaro se mi affido al filo che lega assieme tutta la trama di questo lavoro… o c’è altro?
Esattamente. In più è un altro omaggio a quella che è stata la prima regista/produttrice donna in Italia. Anche se quel suo primo film purtroppo è stato anche l'unico. Parlava di Umanità come sentimento e approccio alla vita in un periodo non molto diverso da questo: era il 1919. Esattamente un secolo fa gli argomenti non erano molto diversi: paura del diverso, guerra ma sempre un pensiero alla rinascita in un mondo migliore.
E vorrei fare un cenno particolare alla grafica di copertina. Opera realizzata dallo Studiolo Icinori… qualcosa che rimanda ad Esher e altro che parla di giudizio universale…
Loro sono una coppia francese. Li ho conosciuti quando acquistai per mia figlia, e anche per me, la storia di Issun Boshi (una sorta di pollicino giapponese) illustrata da loro. Mi innamorai della loro tecnica, colori, immaginazione. Così gli chiesi questo disegno, lo vedevo molto aderente al significato del disco oltre che bellissimo.
E prima di chiudere ti chiedo dei suoni… anzi del suono… quanto questo ha contribuito alla scrittura o quanto è stato solo un arrendo della scrittura stessa? E qui mi rifaccio proprio alla ricerca di archi, di percussioni, di fiati e di elettronica… cercare altro ha significato anche cercare il loro suono o solo altri arrendi acustici alla scrittura?
Io sono sempre stato affascinato dalle timbriche. Cerco di attingere dal mio database di esperienza in merito ai suoni per creare se possibile timbriche altre. Come farebbe un piccolo chimico diciamo.
Chiudo, promesso… ma prima ti chiedo qualcosa che somiglia più ad una domanda alla Marzullo: ogni volta che ascolto questo disco ritrovo i paesi artici dei Sigur Rós, i boschi del Montana, la tradizione blues e il cinema italiano degli anni ’70… ma anche la rincorsa, il divenire, i sogni. Quando ti capita di ascoltarlo di nuovo, ci rivedi quello che avevi dentro quando hai scritto questi dieci brani? Alla fine ce l’hai fatta contro le bestie feroci?
Raramente riascolto i dischi vecchi. Solo per ripasso in vista dei live, dove comunque li riarrangio e modifico. Faccio fatica a guardarmi indietro. Mi dà addirittura fastidio rifare la stessa strada a piedi. Delle bestie feroci da combattere servono sempre per andare avanti, per fortuna.