La tigre di Cremona, la pantera di Goro, l’aquila di Ligonchio. Così i rotocalchi italiani negli anni Sessanta appellavano le dive nostrane del bel canto, rispettivamente Mina, Milva e Iva Zanicchi. Patty Pravo non rientrava nell’onomatopeica zoologica, lei era “la ragazza del Piper”.
Non mancavano di fantasia i cronisti italiani, una bella differenza con i corrispettivi statunitensi di una trentina di anni dopo, quando all’affacciarsi di una nuova stagione di divismo declinato in musica, che ebbe per protagoniste Whitney Houston, Beyoncé e Mariah Carey, non dettero certo sfoggio di fantasia e si limitarono ad appellarle semplicemente Diva’s.
Ecco, una come Mariah Carey avrebbe racchiuso in sé tutte le tipologie affibbiate alle dive italiane, tigre, pantera ed aquila in un tutt’uno.
Un’artista da diciotto numeri uno nelle classifiche di Billboard, 5 Grammy awards, 200 anzi duecentomilioni (così fa più effetto) di dischi venduti all over the world, un’estensione vocale di cinque ottave, scandali e scandaletti, depressioni assortite, trionfi in tutto il mondo e fallimenti deflagranti come un’atomica, anzi, come due aeroplani che si schiantano su due altissimi grattacieli; eh sì, come il rovinoso progetto “Glitter”, film che doveva celebrare le gesta della Carey, che uscì nelle sale l’11 di Settembre 2001, proprio quell’11 Settembre.
Avevo quasi perso le speranze di poter ascoltare ancor qualcosa di decente da Mariah, ma quando meno te lo aspetti ecco la zampata della “giaguara” di Huntington sotto forma di un nuovo disco, Caution, uscito lo scorso dicembre per la Roc Nation di Jay Z, da me colpevolmente ignorato ma riesumato grazie ai consigli di un amico, anche lui intrippato perso per la musica black. Che poi il black di Mariah è stato molto annacquato e zuccherato, spesso declinato in un pop ad alto grado glicemico, ma va dato atto alla nostra panterona di essere stata la prima cantante da classifica ad aver collaborato e in un certo qual modo sdoganato o per meglio dire aver fatto digerire alle masse l’hip hop ed il rap.
Caution sorprende perché trattasi di lavoro attualissimo, dentro non ci troverete nostalgie e rimpianti del tempo che fu, nessuna concessione a quello che fu la stagione dei successi a ripetizione della Carey, bensì stupisce come la materia del contemporary R’n’B è stata trattata; senso della misura, vocalità senza inutili virtuosismi, se non in sottofondo e solo in alcuni pezzi, talmente sfumati che dovrete impegnarvi per ascoltare gli acuti che caccia fuori la Carey.
Da navigata artista la nostra leonessa si è circondata di alcuni dei migliori produttori in circolazione della scena r’n’b, tra cui il grandissimo Blood Orange, Timbaland, Poo Bear e Skrillex. Un parterre de rois che insieme alla Carey ha dato forma e plasmato Caution, facendone un oggetto del desiderio per chi ancora crede che la melodia e l’armonia siano indissolubilmente legate tra loro, anche nei più arditi tentativi per riuscire a comunicare qualcosa che non sia la solita canzone da classifica.
Cosa che non troverete in questo album, nessun brano tormentone come la Carey ci aveva abituati, ma un costante livellamento verso l’alto di tutti i brani, con particolare menzione per “Giving Me Life”, autentica spremuta di groove e di bassi profondi, realizzata insieme alle sapienti mani di Blood Orange e Slick Rick, dove il rap di quest’ultimo e la voce quanto mai vellutata di Mariah compiono il miracolo, facendone un brano quanto mai preciso, una melodia avvolgente come le spire stringenti di un pitone, anzi, di una pitonessa, che arieggia sopra una base morbida e martellante. C’è poca allegria in queste canzoni, nonostante le basi riescono a non essere mai tediose, laddove i testi parlano di relazioni interpersonali e di come gli uomini di Mariah si siano distinti per bastardaggine, come ad esempio nell’iniziale e cruda “GTFO” e in “Ah, No, No”, pezzo che va a ripescare un vecchio hook di Notorius B.I.G ascoltato nel remix “Crush On You” di Lil Kim.
Detto di “Giving Me Life” come pezzo immerso dentro alla contemporaneità sonora, altra menzione di merito in tal senso va a “The Distance”, questo un mid-tempo che più classico non si può ma con il colpo di genio che prende le fattezze di Ty Dolla $ign e del suo rap. Non manca anche la ballad piano e voce e la troviamo nel pezzo che chiude l’album, “Portrait”, un rimando alla classica forma canzone che chiude uno dei dischi più centrati di questo periodo ed il migliore della Carey da quindici anni a questa parte.
Insomma, se pensavate che Mariah Carey fosse il residuo di un’epoca ormai finita, Caution vi porta nel presente con uno sguardo ai suoni di domani, senza scossoni ma giusto per farvi prendere confidenza con tutto quel che di nuovo sta girando là fuori. Era tempo che quel vecchio poster natalizio, con quella canzone che voi tutti conoscete, venisse staccato dal muro.