Spirit Exit, ultima fatica di Caterina Barbieri, pubblicata nel luglio dello scorso anno, vive di un grande paradosso: esplorare mondi sconosciuti, proiettarsi al di fuori di ogni limite, pur rimanendo all’interno delle quattro mura di casa propria. Concepito nel periodo del primo lockdown, nel piccolo spazio dell’appartamento milanese dell’artista, Spirit Exit è il risultato di un diverso modus operandi, non più assemblato dal vivo a partire da sequenze lanciate e fatte interagire sul momento, bensì concepito a tavolino scritto e registrato nel proprio spazio domestico.
Musica come evasione, dunque; fuga dalla realtà ma anche apertura di nuovi orizzonti superando, se possibile, anche la soglia del razionale. Non è un caso che questa sua nuova ricerca sui Synth modulari prenda ispirazione da un trio di figure femminili come Santa Teresa d’Avila, Emily Dickinson e Rosi Braidotti; eterogenee nel contesto culturale e temporale di provenienza (la prima è una mistica medievale, la seconda una poetessa del secondo Novecento, l’ultima una filosofa contemporanea) ma accomunate dall’essersi proiettate sulla dimensione universale dell’esistenza nonostante abbiano condotto vite quasi segregate.
Il risultato è un disco molto diverso dai precedenti, paradossalmente più aperto e arioso, con diversi riferimenti alla musica barocca ed una presenza maggiore di elementi, dal clavicembalo al pianoforte, dagli archi alle voci (questo è in assoluto il suo disco più cantato); un lavoro che potremmo quasi definire cameristico, dove la melodia, da sempre ossessione della Barbieri, è se possibile ancora più presente, e dove l’insistere sulla ripetizione degli stessi pattern è questa volta finalizzata a creare un’atmosfera liberatoria ed estatica.
Tutto questo è andato in scena nella sempre suggestiva cornice della Triennale di Milano, ritorno a casa e prima data italiana per la compositrice, reduce da un lungo tour de force tra Canada e Stati Uniti.
Il palco del piccolo teatro, location ideale per questo tipo di esibizioni, è spoglio, con un telone bianco di plastica sullo sfondo ed una postazione Synth al centro. C’è un’atmosfera particolare sin dall’ingresso del pubblico in sala, con questo allestimento sobrio che, unitamente alle luci basse, favoriscono un atteggiamento inusuale di silenzio e raccolta: se si parla, lo si fa a voce bassa, per il resto l’impressione è che siano tutti in attesa di quel che succederà.
Caterina entra in scena con un vestito che echeggia temi fantascientifici e che accentua ancora di più quella fisionomia aliena che da sempre la caratterizza. Nel giro di pochi minuti la scenografia sobria che ci ha accolti all’entrata si rivela essere una perfetta tabula rasa per un gioco di luci altamente suggestivo che, anche grazie a visual richiamanti un cielo chiazzato di nuvole in differenti momenti della giornata, ci fa immedesimare con quel desiderio di fuga al centro della genesi del disco. Allo stesso tempo la sala si riempie di fumo, trovata scenica che accompagnerà gran parte della performance, a rimarcare una certa aurea sacrale che circonda la scena.
Caterina interagisce con le sue macchine, dialoga con esse come se fossero entità in carne ed ossa, detta di volta in volta gli input da sviluppare, così da dare l’impressione che quel che accade possa accadere solo in quell’unico istante ma, allo stesso tempo, possa seguire direzioni di volta differenti, senza rimanere intrappolata nella definitività imposta giocoforza dalla versione in studio.
La musica è quella di Spirit Exit o meglio, l’ultimo disco ne è il punto di partenza, perché poi le sequenze dei vari pezzi si sviluppano in modi imprevedibili, ora aumentando ora diminuendo d’intensità, ora stratificandosi di armonizzazioni, ora rimanendo al livello di semplici suoni, privi di melodia, mantenendo sempre costante il modello della ripetizione quasi ossessiva dei nuclei tematici.
Versione dilatata e in qualche modo semplificata dell’album (tranne alcuni piccoli frammenti filtrati e campionati, le parti vocali sono state totalmente omesse), i sessanta minuti abbondanti che dura il concerto costituiscono una perfetta esemplificazione di musica come “esperienza fisica e accessibile, in cui abbandonarsi e dissolversi”, secondo quanto dichiarato dalla stessa compositrice in una recente intervista.
Non c’è Beat, è tutto fortemente rarefatto e dilatato, questo elimina la dimensione di trance ed obbliga forse ad un maggiore sforzo di immedesimazione, ma raggiunge comunque il proprio scopo immersivo, grazie anche alla perfetta compenetrazione tra suono e immagine.
Il silenzio quasi irreale con cui viene seguito il tutto, che resiste anche nelle brevissime pause tra un episodio e l’altro, viene rotto dalla stessa Caterina, che rivolge il suo “grazie” ai presenti, a significare che il viaggio era giunto al termine. Gli applausi scroscianti che sono seguiti si sono interrotti subito, alle prime note di un'ultima canzone, degno finale di una serata perfetta.
Con Caterina Barbieri la musica elettronica esce dalla nicchia per appassionati in cui spesso e volentieri viene rinchiusa, per abbracciare una dimensione decisamente più vasta, lasciando un messaggio che ha a che fare con le dimensioni importanti dell’esistenza. E rompe, se ancora ce ne fosse bisogno, qualunque discrimine tra digitale e analogico: tutto è musica, nella misura in cui genera emozioni e veicola una visione estetica del mondo.