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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
06/07/2024
Live Report
Cat Power Sings Dylan, 05/07/2024, Anfiteatro del Vittoriale
Chan Marshall, in arte Cat Power, regala nel bellissimo contesto del Vittoriale l’intero concerto che Bob Dylan tenne nel tour del 1966. Solo un'artista importante del folk contemporaneo poteva permetterselo e il risultato, dopo essere stato più che convincente su disco, lo è stato anche dal vivo, per una serata decisamente magica.

L’aneddoto che ne descrive la nascita è semplice e allo stesso tempo riflette la personalità eclettica di Chan Marshall, in arte Cat Power: quando le hanno chiesto di suonare alla Royal Albert Hall di Londra ha accettato, ma ha deciso di eseguire l’intero concerto che Bob Dylan tenne nel tour del 1966, la cui data di Manchester fu immortalata in quel celebre bootleg che, per un errore, portava appunto la dicitura “London”. Decisamente superfluo rimarcarne l’importanza: è il periodo tra Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde, quello in cui anche dal vivo comincerà a suonare in elettrico, provocando lo scandalo di quella parte del pubblico che l’aveva identificato come artista Folk e che non tollerava che venisse meno a questa immagine.

È il concerto del famoso “Judas!” urlato da uno spettatore (si scoprì neanche troppo coinvolto, quando venne rintracciato anni dopo) al quale lui, per tutta risposta intimò alla band: “Play fuckin’ loud!”. La cosa che fa ridere è che, in epoca di nostalgia e amarcord perenne, quel grido compaia anche nella rivisitazione di Marshall, alla quale lei, ormai del tutto avulsa dal contesto, risponderà con un divertente ma anche simbolico “Jesus!” (questa sera ci ha provato un simpaticone in vena di protagonismo ma l’ha fatto mentre lei presentava la band, beccandosi un piccato “I’m busy!” come replica).

Cat Power, dunque, ha rifatto questo concerto, l’ha registrato e l’ha pubblicato. Ed è successo che è piaciuto a tutti, sia ai suoi fan che a quelli di Dylan, ragion per cui quello che sarebbe dovuto essere un appuntamento one night only è divenuto un vero e proprio tour, che ha toccato anche l’Italia per due date, Bologna e Gardone Riviera, nel più che mai adatto Anfiteatro del Vittoriale.

 

Operazioni di questo tipo sono da sempre viste in maniera ambivalente. Da una parte c’è lo spauracchio della cover band, tanto più presente in questo paese in cui manca una vera e propria curiosità per ciò che è contemporaneo, e locali e sagre varie fanno i soldi andando sul sicuro chiamando musicisti che rifanno sempre il solito repertorio. Dall’altra parte, però, rifare le canzoni di un altro artista può avere senso, soprattutto quando a compiere l’operazione è una come Cat Power; che è un’artista anche lei, con alle spalle una discografia zeppa di capolavori che hanno scritto una pagina importante del Folk contemporaneo; che si è cimentata più volte con le canzoni di altri, avendone riempito addirittura due dischi; e che forse proprio per questo, non ha la preoccupazione di ripetere fedelmente la lezione del maestro, ma si permette una libertà interpretativa che è poi ciò che ha reso speciale questa registrazione live, e che può far sì che vederla in concerto costituisca un’azione più che sensata.

Aggiungiamo anche una considerazione un po’ “maligna” (si fa per dire), e cioè che portare in giro uno spettacolo interamente basato su Dylan (e su un Dylan così “sacrale” aggiungerei) potrebbe essere un sistema perfetto per allargare un po’ il proprio bacino d’utenza, andando a raggiungere una fetta di pubblico che in precedenza non l’aveva mai seguita (e intendiamoci, se anche fosse così non ci sarebbe niente di male, anzi).

Comunque sia, il concerto che ci apprestiamo a seguire è, per una volta, totalmente privo di sorprese: è come una serata di musica classica, dove sai già quello che verrà suonato per cui l’attenzione può rivolgersi esclusivamente alla performance, senza troppi ragionamenti sull’equilibrio della setlist e quant’altro.

 

La prima parte è, come da copione, acustica, con Chan Marshall che, accompagnata da chitarra e armonica, può concentrarsi solo sulla voce. Imitare il Dylan del 1966 non avrebbe senso, per questo la sua prova è personale, quasi in punta di piedi, mettendo il suo timbro al servizio di quei brani, ma personalizzandone il contenuto, pesando ogni parola secondo la propria personale visione. Meno frizzanti delle versioni originali, più sussurrate e quasi colloquiali, i sette brani di questo set nascono a nuova vita, travalicando lo status di semplici cover. In particolare “Desolation Row”, con la sua sterminata galleria di freak, icone letterarie e simboli vari, stesso ritmo di chitarra ma una voce che ne vive letteralmente ogni episodio. Oppure “Just Like a Woman”, svuotata della sua melodia così di facile presa, e portata in territori nuovi, meditativi e ben poco indulgenti.

La seconda parte arriva subito, senza nessuna pausa nel mezzo, ed è quella elettrica, quella che all’epoca scandalizzò i puristi. Ovviamente non c’è nessun bisogno di riprodurne il contesto, oggi quel periodo è già storicizzato da decenni e sentire Dylan alle prese con il Rock ci sembra la cosa più normale del mondo. È dunque forse anche per questo che i musicisti sul palco non si sono sentiti in dovere di riprodurre gli arrangiamenti di quella che sarebbe poi divenuta The Band.

Manca soprattutto quella sensazione di urgenza, quel suono drammatico, caotico, a tratti feroce e addirittura cacofonico. I sette sul palco suonano con l’eleganza che da sempre li contraddistingue, cesellando alla perfezione ogni parte, abbellendo le canzoni con assoli chitarristica di grande pregio e mai invadenti, con tappeti d’organo che danno modo ai vari episodi di distendersi e spiegarsi con grazia davanti a noi.

Su tutto svetta poi la voce, ispirata e densissima, più energica perché adesso ha un terreno solido su cui appoggiarsi, ma sempre attentissima al peso di ogni parola.

 

Ci sono alcune esecuzioni particolarmente potenti, come “Tell Me, Momma” e “Baby, Let Me Follow You Down”, ma il resto è decisamente più “aperto”, con una “Leopard-Skin Pill-Box Hat” da cui esce tutta la natura Blues, e una “One Too Many Mornings” ammantata di profonda nostalgia.

Persino “Ballad of a Thin Man” perde quel senso di angoscia straniante, e ne esce valorizzata nella melodia portante, mentre “Like a Rolling Stone”, proposta dopo una lunga pausa in cui ha presentato la band e si è profusa in lunghi e un po’ confusi ringraziamenti al pubblico e a “Madre Universo” che ha permesso una così magica serata (sono probabilmente i residui della sua personalità debordante che vengono fuori), è suonata sì con piglio vivace e potente, ma con linee vocali anche qui opportunamente modificate, ad impedire un effetto singalong che, ammettiamolo, sarebbe stato probabilmente fuori luogo.

 

Un gran concerto, che ci ha permesso di toccare con mano un’operazione che è stata tutto tranne che superflua e che, siamo sicuri, darà a Chan Marshall una nuova consapevolezza, nel momento in cui deciderà di cimentarsi di nuovo col proprio materiale. La attendiamo al prossimo tour, dunque.