Grazie ai ragazzi di Night Shift (Maristella, Lorenzo e Giordano), al Centro Internazionale di Quartiere ho potuto assistere ai live act di tre artisti musicalmente differenti tra loro ma uniti da un amore per la wave ’80 di derivazione synth pop.
Ha aperto le danze Stefano Castelli, titolare del progetto omonimo. Dopo una produzione realizzata solo digitalmente nel 2021, il nostro è approdato nel 2022 al primo vinile Anni Venti, pubblicato dall’etichetta olandese Bordello a Parigi, la cui veste grafica, di sobria eleganza sia come colori sia come grafica e font utilizzati, rimanda mirabilmente all’estetica di quegli anni.
La musica di Castelli (che dal vivo viene accompagnato da Luca Urbani, suo producer, e da Claudio Chiodi) si muove nell’ambito di un synth pop autoriale, memore anche di alcune sonorità della italo-disco più educate, diretto erede di un modo di fare musica di intrattenimento di classe, con linee melodiche ben delineate e testi di spessore, accompagnati da un cantato che, rispetto alla trap imperante, risulta assolutamente démodé e quindi profondamente vintage.
Il concerto inizia con “Festa” e “Wave Goodbye”, due pezzi molto catchy, tratti dall’ultimo album, con un cantato che, come sopra richiamato, risulta fortemente debitore del cantautorato Italiano dei primi anni Ottanta, Garbo in primis, che, difatti, risulta come guest nel successivo brano 1984, tratto dall’album di debutto. La parte centrale del live è la riproposizione di alcune canzoni di questo stesso album, su cui emerge “Paneuropea”, con la sua sezione ritmica tipicamente eighties. Altro pezzo particolarmente riuscito è “Manchester d’Estate”, seguito da “Cosmonauti” dove si ritrovano sapori new romantic (come non riandare ai Visage delll’iconica “Fade to Grey”, indicati da Stefano quali una delle proprie fonti di ispirazione, ndt.). Il set si chiude con “Luna”, altro brano le cui sonorità wave primi anni Ottanta, in particolare il gioco delle tastiere, trovano il loro pendant nelle liriche molto suggestive.
Per comprendere bene la persistente fascinazione per tale tipo di sound, da parte di artisti che, anagraficamente, non hanno vissuto quel periodo musicale, alla fine del concerto ho scambiato due chiacchere con Stefano. Questi mi ha rappresentato come tale scelta, che da un lato potrebbe risultare anacronistica, risulta essere il conseguenziale e naturale frutto di un personale percorso musicale nato nel 2003 col punk, e poi evolutosi nella wave, fino all’approdo a sonorità maggiormente elettroniche (parole analoghe a quelle usate da Morgey Ramone dei Korine, con cui ho avuto un telegrafico scambio di vedute alla fine del loro concerto).
A seguire è salito sul palco M!R!M!, aka Jack Milwaukee, alias Jacopo Bertelli. Sono stato molto contento di questa aggiunta last minute in quanto seguo il progetto di Jacopo sin dal primo album, oramai inciso circa dieci anni orsono. La setlist del concerto è stata tratta equamente dagli ultimi due dischi (Visionary e Time Traitor, ambedue su Avant Records) partendo dal brano introduttivo dell’ultimo LP, “Moody Moon”, per chiudersi con “Another Life Another Time”, primo pezzo del precedente Visionary. In mezzo alla gig, snocciolatesi in circa un’oretta, una nota di plauso spetta a “Crystal Cave”, “Post Fight” e “Testament”.
Il sound di M!R!M! risulta sicuramente debitore della prima wave inglese, in particolare dal lato più ritmato della stessa, anche se un brano come “Exile” potrebbe essere stato inciso da gruppi maggiormente easy listening (mi vengono in mente i Lotus Eaters di Michael Dempsey, fuoriuscito dai The Cure all’epoca di Three Immaginary Boys, autori della famosa hit “First Picture of You”). Peccato che il timing messo a disposizione non abbia permesso di presentare anche alcuni brani dei primi due LP (penso in particolare a “Crast”, presente nell’album Iuvenis).
La serata è terminata con il concerto dei Korine. Cosa dire? Il duo USA, formato da giovanissimi Trey Frey e Morgey Ramone (che, giocando con il suo aspetto androgino, risulta fortemente iconico) con una sapiente setlist, che ha pescato essenzialmente dall’ultimo album Tear, ha condotto gli spettatori al cospetto di una wave sintetica maggiormente posizionata sul lato danceable sin dall’incipit di un brano come “Mt Airy”, seguito da un altro synth anthem come “Fate” (tratto dal precedente album The night We raise) e da un altro brano molto ritmato come “Cruel”. Dopo le atmosphere maggiormente raccolte di “Sunshine” e di “Dream Dancer”, il concerto è proseguito con “The more I try” e con con il brano di maggiore impatto dell’ultimo album, “Train to Harlem”, per concludersi con “Elegance”.
Di solito non amo i paragoni, soprattutto con alcuni gruppi iconici del passato, ma questi due ragazzi, non saprei per quale particolare motivo, forse per le linee vocali utilizzate, mi ricordano tantissimo i primi Tears For Fears, in particolare quelli di “Hurting”. Un paragone è importante e forse troppo azzardato, ma invito tutti ad ascoltare “Train Of Harlem” per verificare se le sensazioni a me trasmesse da questi due ragazzi, possano essere condiviste anche con chi legge.
In conclusione, parafrasando un termine coniato dalla scena giornalista inglese agli inizi degli anni Novanta, chi scrive, a distanza di tanti anni dagli originali, non può ce dire di aver vissuto una serata all’insegna della new wave of synth wave.