Ci sono delle parole che sono così radicate nel linguaggio comune, che spesso vengono usate senza quasi riflettere sul loro intrinseco significato. Una di queste, ad esempio, è zapping, termine mutuato dalla lingua inglese, la cui introduzione nel nostro vocabolario è relativamente recente, essendo connaturata all’invenzione di quel malefico (o benefico) strumento, che tutti chiamiamo telecomando.
L’esercizio dello zapping, sport dai ritmi adrenalinici e praticato prevalentemente sul divano di casa, prevede, nella mano non occupata dall’attrezzo telecomando, l’uso di quello che normalmente viene chiamato “contrappeso”, e che comunemente prende la forma di una bottiglia di birra, ma che può, in alcuni casi, assumere anche le sembianze di un pacchetto di patatine, di un vasetto di cetrioli sotto aceto, di una vaschetta di gelato o di un barattolo di Nutella (contrappesi, questi ultimi due, molto utilizzati da atleti di sesso femminile).
Lo scopo finale di questa attività agonistica è duplice. Da un lato, infatti, si ricerca affannosamente, saltando da un canale all’altro, un programma che rivesta per lo spettatore un qualche interesse. Il traguardo, considerato lo stato demenziale in cui versano le nostre televisioni, è praticamente irraggiungibile, e tuttavia, l’atleta compensa la frustrazione da insuccesso grazie allo smisurato senso di potere (qualcosa di simile allo ius vitae ac necis di derivazione latina) prodotto dall’utilizzo del telecomando (la pratica è auto assertiva perché ha come prius logico l’esercizio del ruolo di pater familias: chi detiene il possesso del telecomando è Dio, gli altri invece non contano un cazzo). Il secondo obiettivo dello zapping, poi, è quello (salvifico) di cambiare canale ogni volta che il programma che state guardando viene interrotto dalla pubblicità (e di solito, per cinque minuti, continui a finire su canali, in cui, esattamente nello stesso momento, partono gli spot). Infatti, e forse non tutti lo sanno, il termine “to zap” in inglese significa uccidere, o meglio, l’atto di uccidere un insetto colpendolo con lo spruzzo di un’insetticida (così, per assimilazione, con il telecomando si uccide la pubblicità).
Eppure, i più giovani lettori di questa pagina trasecoleranno nel leggere ciò che mi appresto a scrivere ora, e cioè che ci fu un’epoca, nemmeno tanto lontana nel tempo, in cui quello della pubblicità era il momento clou di tutta la programmazione televisiva, il programma che nessuno, dico nessuno, si sarebbe mai perso, per nessuna ragione al mondo.
Erano gli anni di Carosello, dieci minuti di spot pubblicitari, in onda tutte le sere, cascasse il mondo, su Rai1 dalle ore 20.50 alle ore 21.00. Una trasmissione che aveva talmente permeato il tessuto sociale della nazione, da aver inciso profondamente sulle abitudini di vita degli italiani. Tanto che, a proposito del fenomeno Carosello, si erano creati veri e propri tormentoni linguistici che noi vecchietti, allora bambini, ci sentivamo ripetere più volte al giorno: “Dopo Carosello, tutti a nanna!” oppure, ogni volta che scassavi i coglioni ai tuoi genitori, “Stasera vai a letto senza Carosello!”. Senza Carosello? Ma siamo impazziti? Di fronte a una minaccia di questo tenore io ero capace di cose inaudite, come lavarmi le orecchie senza che fosse l’ora del bagnetto, o passarmi la pietra pomice sulle mani, o addirittura mangiare senza fiatare un fottutissimo piatto di passato di verdura. Capite quindi quanto fossero determinanti, soprattutto nella vita di un bambino, quei dieci minuti serali, che erano il fiore all’occhiello di una televisione in cui i cartoni animati venivano passati con il contagocce (ricordate Scacciapensieri il sabato sera sulla Svizzera?) e che ancora non conosceva tv private, pay tv e minchiazzate netflixiane assortite?
Difficile comprendere davvero cosa fosse Carosello per chi ha vissuto solo nell’era della televisione moderna, in cui lo spot, nella migliore delle ipotesi, consiste in trenta striminziti secondi di tette rifatte, scollature anarchiche e scosci vertiginosi, ammiccamenti sessuali e cafonissimi slogan. E poi, macchine, orologi, cellulari, lavastoviglie, shampoo, creme, profumi, aperitivi, tutti esclusivi, tutti fighissimi, tutti indispensabili per essere qualcuno.
Carosello, invece, pubblicizzava prodotti, ma lo faceva con il passo felpato di chi cammina cercando di non far troppo rumore: la pubblicità c’era, ma non si vedeva, e lo spot consisteva in uno sketch o in un cartone animato, spesso completamente estranei alla logica del prodotto commerciale che si vendeva. Una trasmissione di qualità, dunque, alla cui realizzazione contribuirono, nel corso degli anni, registi del calibro di Ugo Gregoretti, Age e Scarpelli, Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, Pupi Avati e Sergio Leone, mica pizza e fichi.
In vent’anni di programmazione, gli episodi di Carosello furono esattamente 7261 e alcuni personaggi di quegli inarrivabili spot sono entrati a far parte prepotentemente del bagaglio etico e culturale di più di una generazione di italiani, che ancora oggi rimpiangono la Rai di Freccia Nera e Belfagor, e sboccano ogni volta che in tv passa un reality o un plasticoso episodio di CSI.
Io, a esempio, uscivo di cotenna per l’episodio con il Gigante Amico (“Gigaaante, pensaci tuuu!“) che pubblicizzava il Kinder Ferrero, e tifavo come un ultras per il cattivo Jo Condor (“Macche? C’ho scritto Jo Condor???”), così come trovavo inarrivabile la pubblicità dell’Amarena Fabbri, con il Capitano (Salomone Pirata Pasticcione) che parlava in piemontese, e il mozzo siciliano che ogni tanto se ne usciva con uno strepitoso: “Capitano, lo possiamo torturare?”. E che dire poi di Calimero, il dolcissimo pulcino creato da Nino Pagot e testimonial della Mira Lanza, che insegnò ai bambini della mia generazione la rettitudine, l’onestà e l’accettazione del diverso? Ve lo ricordate Topo Gigio che pubblicizzava i Pavesini e le avventure di Carmencita e Caballero nello spot del Caffè Lavazza? E la Linea disegnata da Osvaldo Cavandoli per le Pentole Lagostina, Mimmo Craig e l’Olio Sasso, che mi fecero innamorare del Peer Gynt di Grieg al grido: “La pancia non c’è più, la pancia non c’è più!”? E Franco Cerri e l’uomo in ammollo (Bio Presto), Nicola Arigliano e il digestivo Antonetto?
Altro che nostalgia, vero? Di più, molto di più. Anche perché, inutile nasconderlo, in questo mondo di desertificazione globalizzata, in cui imperano cellulari e Tv in streaming, nel quale dobbiamo appagare i nostri desideri alla velocità della luce e i ricordi personali sono sbiaditi dalla memoria centrifugata del web, a chi mai può importare la qualità artigianale di un Carosello se non a vecchi rincoglioniti che hanno già fatto il giro di boa delle loro vite?
Fortunatamente, ci sono il telecomando e lo zapping, noto sport da divano, che ci aiutano a mantenere un decoroso livello delle nostre, già parzialmente compromesse, funzioni intellettive. Basta schiacciare un tasto per interrompere la feroce e indecente supremazia del brutto. Non sempre lo zapping fa male.