Dicono che “neanche un pazzo avrebbe scelto un titolo così”. Non leggo mai i comunicati stampa ma in questo caso era necessario, dato che era un gruppo che non conoscevo. La frase conclusiva, ad ogni modo, mi ha strappato un sorriso ed un moto di approvazione. Perché è indubbio che La Grazia Obliqua, collettivo romano attivo dal 2012 ma solo da un paio d’anni impegnato nella composizione di materiale originale, rappresenta tutto ciò che non si dovrebbe fare per attirare l’attenzione di un mondo musicale sempre più all’insegna delle formule preconfezionate e del politically correct.
Innanzitutto, il monicker, ambiguo e molto poco memorizzabile (si può usare l’acronimo LGO ma non è che le cose migliorino più di tanto), anche se comunque di gruppi italiani col nome lungo che hanno fatto successo negli ultimi anni qualcuno ne abbiamo. Poi la copertina, esoterica e suggestiva, al punto da far pensare ad una qualche uscita della storica etichetta Black Widow (che esiste ancora, se qualcuno se lo stesse chiedendo). E poi quel titolo: “Canzoni per tramonti e albe – Al crepuscolo dell’occidente” che, al di là del messaggio impegnativo, non è esattamente la cosa più facile da citare nelle discussioni tra amici.
Sono elementi di contorno, certo ma segnano già un certo tipo di percorso, lasciano intravedere destini possibili: perché se non succederà qualcosa di assolutamente imprevedibile, questa opera prima del sestetto capitolino (in precedenza, nel 2017, c’era stato un ep) rimarrà un prodotto per pochi eletti o, alla peggio, per nostalgici.
Ecco, diciamo che quest’ultima categoria mi piacerebbe non venisse scomodata più di tanto. Perché se sono disposto ad accettare che i gusti musicali odierni (per lo meno quelli degli italiani) non siano proprio in linea con la proposta contenuta qui dentro, sarebbe invece più arduo vedere liquidato questo album solo come intrattenimento per cinquantenni.
Non è un segreto, certo, che La Grazia Obliqua si muova su territori facilmente identificabili col Dark, la Wave (New e Post), il Gothic, e tutti i loro affini e derivati. Allo stesso tempo, però, c’è un’attitudine, sonora e testuale, che li radica profondamente nel presente.
L’operazione in sé risulta chiara: utilizzare tutta una serie di linguaggi a loro famigliari e con cui si identificano facilmente, per osservare la realtà contemporanea in tutto il suo inesorabile declino. Spengler (non è troppo carino citarlo, cercate di perdonarmi) parlava di “Tramonto dell’occidente” ed un concetto simile lo aveva già espresso Nietzsche (a cui peraltro è dedicata una delle tracce del disco). Bene o male, i testi di questo lavoro si muovono attorno a queste suggestioni e non è forse un caso che ci sia dentro Rimbaud, il poeta che seppe vedere oltre ciò che nessuno aveva mai veduto, salvo poi fare di tutto per annullare la propria esistenza diventando lui stesso uno di quei borghesi affaristi che disprezzava; e Pasolini, la cui figura, ripresa nel momento della morte, costituisce un emblematico e probabilmente simbolico finale: esiste un’immagine più forte, per evocare la fine, che la scomparsa violenta dell’intellettuale che più di tutti seppe denunciare la falsità delle promesse del mondo moderno?
È dunque un disco che non rassicura. Se state cercando il conforto di tesi preconfezionate e di suoni facilmente catalogabili ed assimilabili, non dovete passare da qui. È un disco scomodo, provocatorio e a tratti anche disturbante, come del resto tutta la vera arte dovrebbe essere.
Ma la cosa più bella di un lavoro del genere è la sua varietà: nell’arco dei 40 minuti in cui si dipana, riesce ad utilizzare linguaggi disparati e ad esplorare numerosi territori; riconducibili alla medesima area semantica, certo, ma in modo tale da non apparire mai monocorde o prevedibile.
Si parte dalle chitarre glaciali dell’opener “Kaos/Sempre”, che dipinge scenari industriali tipici dei Nine Inch Nails, in modo simile a quanto recentemente fatto dai Dish-Is-Nein (ex Disciplinatha) nel loro ep dello scorso anno; si prosegue con “Genealogy”, più tipicamente Wave, con un feeling cupo acuito dal doppio registro linguistico del cantato, italiano e inglese. Se “Oasis” e “Hail the Kaos” si dimostrano magistrali nel loro mescolare sonorità elettroniche Post industriali con elementi Dark, al servizio di una struttura non scontata, “Velvet 1994-2000”, già fuori come singolo, rappresenta una splendida rilettura in chiave moderna di una certa Dark Wave che va dai Cure ai Bauhaus, un brano dominato dalla cassa dritta e dalla rievocazione dello storico locale romano, attivo fino ai primi Duemila, che è stato per diversi anni il centro di una scena vivace e per certi versi controcorrente. Anche qui nessun rimpianto e nessun cedimento alla retromania: semplicemente, la rievocazione di un periodo, nella consapevolezza che però adesso occorre andare avanti e declinare in altro modo la propria strada.
“Lilith”, ballata dalle insolite tonalità dolci e addirittura romantiche, costituisce un perfetto contraltare alla traccia precedente, sorta di ponte per l’ultima parte del disco, che è quella in assoluto più contemplativa. È qui che La Grazia Obliqua riesce davvero a spiazzare: dapprima con “Verso Aden”, epica ballata tra i Diaframma e i primi Litfiba; poi con “Cantare bellezza”, che addirittura riprende la formula della canzone d’autore, qui con l’accento posto sul lato Folk. Per finire, la già citata “Pasolini”, finale in minore, triste ma non disperato, ideale conclusione di un viaggio di cui però non ci è dato di vedere l’approdo.
Sono “Canzoni per tramonti e albe” e sono canzoni coraggiose, non per tutti, e lo dico senza nessun intento snobistico. Non so che tipo di futuro avrà La Grazia Obliqua ma senza dubbio è bello che in Italia ci sia gente così. Che poi attenzione, ogni proposta ha la sua dignità e credo che uno come Achille Lauro fotografi la realtà contemporanea in modo altrettanto efficace. Detto questo, fa piacere vedere che c’è anche chi non ricerca pedissequamente ciò che va di moda e ama ritagliarsi lo spazio di voce fuori dal coro.