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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
08/07/2019
CISCO
Canto indiano contro il buio del cemento
“Siamo tristi perché questa è la società che abbiamo creato, in cui ci siamo, in qualche modo, buttati a capofitto, fatta di rapporti attraverso i cellulari, di solidarietà attraverso i cellulari, di lotte, offese e contrasti sempre attraverso i cellulari, dove quest’oggetto la fa da padrone in tutto e per tutto”. (S. Cisco Bellotti)

Erano i primi anni di questo nuovo millennio quando incontrai CISCO per la prima volta, da poco reduce dal grande divorzio con i Modena City Ramblers. Erano giorni di scoperta per me che mi avventuravo a vestire i panni di cantautore e fu lui a regalarmi la sua voce per un pezzo che non credevo potesse piacergli… e invece la sua voce impreziosì quasi più il mio ego che il brano in sé. Sono passai quasi dieci anni e ritrovo CISCO in questo disco che non tradisce nulla di quello spirito che imparai ad amare, lo stesso che si dichiarava, allora come oggi, sfacciatamente affamato e assetato di contaminazione, di cultura e di incontro. Gira questo vinile titolato “Indiani & Cowboy” dai suoni latini, desertici, americani… suoni di confine come mi dirà, suoni accolti dal bisogno di avere altro che non sia il solito cliché che lo ha reso celebre ai più. Ha raggiunto la terra di confine per eccellenza, ha raggiunto il Texas, ha trovato lungo la via la produzione di Rick del Castillo, ha raccolto una voce importante per manifestare il bisogno di emanciparsi da stilemi sistemici di propaganda politica omologante… e di tutto questo ne ha fatto voce e canzone in un disco che denuncia la distanza, la tristezza, la violenza che il conformismo industriale semina nelle vene di ognuno di noi, ogni giorno, ogni minuto che restano accesi i telefonini, i social, i telegiornali… il mainstream. Guerra partigiana fatta di parole e musica contro il baffone, contro i cowboy, contro l’ignoranza che ci rende schiavi inconsapevoli di un potere che gioca di fino la sua carta dittatoriale.

CISCO diventa padre di cinque figli e sottolinea anche questa trasformazione, il passaggio silenzioso e altrettanto violento dall’essere figlio e pellegrino a padre e condottiero. E poi i suoni di questo disco non sono per niente banali… caleidoscopici e nervosi nella ricerca dell’altro, si placano nell’equilibrio che trovano, si accomodano nelle melodie che disegnano e il tutto diviene inevitabilmente naturale. E allora le trombe polverose di scenari latini, le chitarre di ferro-ruggine per un tex-mex fin troppo didascalico, i ritmi quasi tribali e il pop d’autore che si fa suddista e polveroso… si celebra la certezza di avere il lavoro di un cantautore che cesella il messaggio dietro ogni sfumatura, dietro ogni parola che ha scelto senza alcuna distanza tra l’uomo che vive la strada e quello che si chiude tra i libri.

E anche queste ormai sono distanze divenute incolmabili. “Indiani & Cowboy” è forse uno dei dischi più importanti del canto partigiano di Cisco, uno dei lavori che, dall’attualità comune ad ognuno di noi, parte per scoccare frecce al cuore della sensibilità e del dovere critico che probabilmente abbiamo dimenticato di avere. Sembra assurdo, ma par proprio che sia così. Come a dire che l’individuo, omologato al sistema, smette anche di pensare e di decidere, smette di ragionare. Ecco una parola che in fondo fa ancora paura: ragionare. Che ognuno ragioni, che ognuno torni a far di conto per quel che gli vive attorno, che ognuno riconosca bene il ruolo degli indiani e quello dei cowboy.

La nota politica non manca nella scrittura di Cisco, per quanto questa si attesti sempre nella narrazione di personaggi che hanno segnato un passo decisivo alla lotta contro chi del potere ha utilizzato solo le armi più subdole per educare il gregge a belare a comando. Questo siamo diventati… e i due piani di lettura ascritti al singolo “L’erba cattiva” ci ricordano quanto sia cattiva per il sistema (anche per dire salvifica per la nostra sopravvivenza) quell’erba che - a guisa di rampicante da estirpare (o da proteggere) - scavalca i muri e le frontiere per generare incontro, spirituale e culturale. I muri e le discriminazioni sono distanze che culliamo ogni giorno, inventando e fomentando paure per il diverso, cercando di annientare sul nascere quelle che Baricco, in qualche modo, ha chiamato Invasioni Barbariche pensando che al diverso sia associata soltanto odio e violenza e sopraffazione.

E il tutto parte dai nostri cellulari, dai social che fecondano solitudine e competizione, dalle televisioni che sponsorizzano soltanto conformismo utile al sistema industriale. Concetti che ricorrono troppo spesso nella voce degli artisti contemporanei e che, tra i solchi di questo vinile, trovano spazio e forma canzone dal gusto davvero superiore. Ho rubato a Cisco il tempo di una chiacchierata… risposte che consiglio di sottolineare come si fa con un bisogno di sopravvivenza.

 

La prima parola, forse la più evidente è muro. Oggi i muri sono tanto alti quanto invisibili… e per scrivere un disco simile, tu i muri devi averli visti da vicino…

Questo è un disco di contrasti, dai temi forti, dai sapori forti, di buoni e cattivi e di bene e male, di porti chiusi e muri alzati. Muri come quelli che metaforicamente e non solo innalziamo ogni giorno nella nostra società, nel nostro modo di vivere, con chi reputiamo diverso da noi, reputiamo non adatto a venire in contatto con la nostra vita e ti garantisco che ne stiamo costruendo tantissimi di questi muri, apparentemente invisibili, ma che ci sono, sono forti e sono presenti. Io da sempre combatto questo modo di pensare perché credo sia sbagliato, inutile, e anzi credo che la politica e la società in generale debbano lavorare per abbattere muri e avvicinare le persone di estrazione sociale, culturale diversa e fare in modo che possano integrarsi, vivere, convivere in maniera positiva nelle varie situazioni. Ma detto questo, sottolineo ancora di più l’inutilità di questi muri perché abbiamo dimenticato l’erba cattiva, quella che noi consideriamo l’erba cattiva, che per l’appunto viene cantata in questo disco, quella che non si ferma davanti ai muri, che i muri li trapassa, li scavalca, pianta radici, cresce e si sviluppa. Si può provare a disinfestare, a sradicarla, ma l’erba cattiva avrà sempre la meglio sui muri alzati.

 

“Siete tristi” è un brano decisamente forte e spietato. Non la mandi a dire. E dunque non è tristezza ma omologazione un’altra parola che mi è giunta forte. Ormai ci fanno credere di tutto e noi, come pecore in branco, a questo tutto crediamo. Ma perché secondo te?

Ci tengo a precisare che quel “siete tristi” può essere anche un “siamo tristi”, non mi escludo da questa situazione. Siamo tristi perché questa è la società che abbiamo creato in cui ci siamo, in qualche modo, buttati a capofitto, fatta di rapporti attraverso i cellulari, di solidarietà attraverso i cellulari, di lotte, offese e contrasti sempre attraverso i cellulari, dove quest’oggetto la fa da padrone in tutto e per tutto.

La parola omologazione c’entra tantissimo: proprio il fatto di non seguire mode, dettami o anche semplici notizie che poi si rivelano spesso false attraverso i nuovi media. Questa omologazione ci costringe ad avere un comportamento quasi unidirezionale, poi ovviamente ci sono quelli che si salvano, che mettono in dubbio quelle che sono le certezze del web… fino a giungere ai paradossi come quelli dei terrapiattisti. Però sì, è un pezzo proprio verso l’omologazione che la società ormai tende a creare, pensare per un pubblico come consumatore, come numero che deve portare un profitto.

 

Parli di Indiani come di persone che tentano di sopravvivere e di Cowboy come di persone che continuano a non capire. Parli di due fronti che non sono banalmente opposti ma che vivono in equilibri precari dai contorni mescolati in modo assurdi. E ti sei mai chiesto se fosse il contrario? Cioè se i Cowboy cercano di sopravvivere facendo quello che fanno e sono invece gli indiani a non capire le cose che accadono?

“Indiani e cowboy” anch’essa è una metafora di buoni e cattivi, di bene e male, poi ognuno ci può vedere quello che vuole, se il bene lo vuoi vedere nell’atteggiamento da cowboy. Per me il cowboy rappresenta il potere, quello con la forza, quello che può usar la forza anche al di sopra della legge perché in fondo la legge è lui che la fa, che la scrive e la detiene, come viene in qualche modo cantato ne “Lo sceriffo”. Quindi gli indiani a loro volta sono quelli che la subiscono la prepotenza, la legge, la disuguaglianza… nel mio ragionamento, se vogliamo banale, è proprio lì il concetto. Ma c’è una lettura diversa, come si evince dalla copertina: il bene e il male si baciano, vanno di pari passo, vanno insieme perché sono legati l’uno all’altro, perché senza il male faremmo fatica a riconoscere il bene e senza il cattivo faremmo fatica a riconoscere il buono, quindi il bene e male molte volte sono anche legati fra loro. D’altronde questo è evidentissimo nella politica italiana, dove molti politici scimmiottano, recitano parti, ma poi li vedi andare di pari passo verso decisioni politiche molto discutibili, tanto da spiazzarti e fai fatica a distinguere qual è la parte buona e quella cattiva.

 

Altra parola che nasce soprattutto dall’ascolto de “Lo sceriffo”. Ed è paura. Paura di emarginazione, di solitudine, di se stessi. Paura di doverci trovare a riempire dei vuoti… paura di dover pensare da soli. La paura ormai è un ingrediente fondamentale delle politiche sociali. Abbiamo lasciato la paura fisica delle dittature ma siamo di fronte a paure di ben altro genere, invisibili, mediatiche… non sei d’accordo?

La paura è stata la forza principale degli ultimi anni di politica che ha portato il nostro paese in questa situazione. Come spesso accaduto nella storia, basta indicare il nemico da temere e in qualche modo riesci a tirare a te armate ed eserciti di persone spaventate, pronte ad armarsi ed uccidere il nemico, perché tu le hai caricate di quella paura. Oggi giorno è evidente che il nemico numero uno sono gli immigrati, e grazie a questa mossa propagandistica politica elettorale, che ancora oggi è in piena azione, da una parte continua a raggranellare voti sempre più importanti e dall’altra crea questa fantomatica cappa di paura, di terrore, su un certo tipo di popolazione che magari ha meno possibilità di ragionamento. Ma lo vedo anche in famiglia, su mia madre che ha 85 anni e non vivendo tanto fuori di casa, si fa un’idea guardando i telegiornali e sentendo ciò che dicono le persone ai telegiornali e sembra che fuori dalla porta di casa ci sia la guerra civile.

Evidentemente quella paura che ti hanno inculcato ha avuto successo, ha fatto breccia, ma dall’altra ha creato un misuderstanding generale.

Dobbiamo avere semplicemente l’intelligenza e gli anticorpi per capire che certi discorsi continueranno ad esser fatti per propaganda elettorale e vanno presi per quello che sono. Finché c’è gente che dà retta a quel tipo di discorsi, avremo sempre politici di quel genere.

Noi non sentiamo mai politici che ci mettono in guardia dalla paura della famiglia, e lo dico io che ho una famiglia numerosa, ho 5 figli, infatti se andiamo a guardare i numeri delle violenze, degli omicidi e di tutto quello che accade di brutto nella nostra società, la maggioranza accade proprio in famiglia… però nessuno ha il pensiero di cavalcare quel terrore e quella paura perché la famiglia è un concetto sacro che nessuno vuole andare a toccare… ma davvero basta guardare i numeri e farci un ragionamento.

 

Il suono di questo disco è assai americano. Se mi permetti di usare parole un po’ troppo generaliste, in qualche modo hai lasciato l’Irlanda a cui ci hai abituato e sei arrivato fino in Texas (davvero peraltro, non solo metaforicamente). Anche “Matrimoni e Funerali” era un disco dai forti sapori latini ma qui sembra ci sia una decisa dichiarazione d’intenti, una forte direzione per tutto il lavoro. Sbaglio?

Giunto a 50 anni avevo proprio bisogno di trovare nuova linfa e aria fresca a livello sia di immaginario che di suono, e l’America in questo mi è corsa incontro. L’America che poi piace a me, che parte dal Messico, dal Sud America e arriva ad abbracciare i suoni americani del Texas che non a caso è uno stato di frontiera, di confine, mescolato di culture in cui non si capisce dove finisce il Messico e iniziano gli Stati Uniti, quindi non a caso il disco è stato fatto in Texas.

Forse non sarei andato fin negli States a farlo, magari nel Nebraska o in uno degli stati che confinano col Canada, proprio perché avevo bisogno di suoni particolari… per questo è stato fondamentale l’incontro con Rick del Castillo, produttore del disco e chitarrista eccezionale che ha raccolto egregiamente le idee, gli spunti del lavoro e lo ha realizzato. Sonorità tex-mex che in qualche modo stanno aprendo la strada per nuovi lavori e a cui non rinuncerò facilmente, a partire già dal tour stesso che stiamo portando avanti e dalle cose che sto pensando per il futuro.

 

Di sicuro avrai citato Rick del Castillo per rispondermi alla domanda di prima. Mi chiedo: perché lui, perché la sua produzione, perché lavorare assieme? Insomma sono sempre curioso di capire da dove nasce una collaborazione. Che poi un disco assieme è un pezzo di vita da fare assieme… non è poca cosa insomma…

Con Rick l’idea è nata attraverso una conoscenza comune con Paolo Paggetti della River Tale che insieme a me è il produttore esecutivo di questo disco, lui aveva questa conoscenza e io ho voluto approfondire, andare a capire che tipo di musicista fosse Rick, che tipo di lavori avesse fatto, stiamo parlando di un personaggio che dà del “tu” a Robert Rodriguez e a Quentin Tarantino, uno che si occupa senza problemi di colonne sonore dei loro film in maniera molto rock, molto tex mex come poi piace a me, e quindi mi sono detto che questa era la persona giusta per prendere in mano il mio disco, per produrre questo lavoro e farlo secondo la strada che avevo in mente.  È stato subito complicato mettere insieme le due cose perché Rick è una persona molto molto impegnata e quindi trovare lo spazio anche per coinvolgerlo non è stato semplice, ma ricordo ancora quando Rick sotto Natale mi mandò il primo pezzo da lui lavorato, per il quale noi gli avevamo mandato la base, e mi arrivò questa chicca che era proprio Cowboy e Indiani prodotta da lui, io rimasi a bocca aperta e ogni dubbio fu fugato. Così iniziò questa meravigliosa collaborazione.

Sono quegli incontri magici che ti capitano nella vita e che speri sempre possano accadere anche in maniera numerosa: io ho avuto la fortuna di fare vari incontri musicali nella vita e questo con Rick per me è un incontro speciale oltre ad aver scoperto una persona meravigliosa.

 

La title track del disco è davvero bella. Arriva una passione assai diversa rispetto al resto del disco. Una domanda sottile ed insidiosa di metafore: da figlio sei diventato padre. Cioè in qualche modo da indiano sei diventato un cowboy?

Hai esattamente capito il concetto del pezzo: su “Cowboy e Indiani” il conflitto è proprio tra padri e figli/figli e padri. Io ho scritto quella canzone prima pensando a me come figlio nei confronti di mio padre scomparso l’anno scorso, quindi fresco anche del dolore per la sua dipartita, ma allo stesso tempo anche ricco di gioia per l’arrivo di due nuovi figli, due gemelli nati sempre l’anno scorso, ho infatti una famiglia numerosa, 5 figli, ed ho vissuto a pieno questo conflitto tra essere il padre di questi bambini e a mia volta ero il figlio di mio padre ancora a 50 anni e mi sono immaginato questa lotta eterna, di questa ruota che gira che tu prima combatti il padre, tra virgolette però perché io ho voluto un bene del mondo a mio padre, non ho avuto mai grossi problemi con lui, ma è un conflitto naturale quello tra padre e figli e adesso lo “subisco” da padre da parte dei miei figli, ma è qualcosa del tutto naturale che bisogna imparare a gestire. La canzone canta di quello: se i padri sono cowboy e i figli sono gli indiani, allora da indiano sono diventato cowboy, o viceversa, i miei figli ogni tanto sono cowboy ed io sono l’indiano che subisce.

 

Prima di chiudere vorrei parlare del crowdfunding con cui hai potuto realizzare questo disco. Più che un aspetto meramente tecnico ed economico, mi pare che tali piattaforme siano un elemento sociale assai significativo. La musica che un tempo era di piazza e di ritrovo oggi è un bene reso superficiale ed elitario (in senso non troppo bello). Dalla tua lunga e densa esperienza… che impressioni hai guardandoti attorno?

L’esperienza del crowdfunding credo sia una delle cose più positive del mondo tecnologico musicale attuale: il crowdfunding, ma in generale l’internet, abbatte le barriere della distanza tra pubblico e artista, quindi ti permette di essere più a contatto diretto con chi segui e chi ti segue che è una cosa che io ho sempre amato anche nel periodo dei Modena ma anche soprattutto poi nella mia carriera da solista… quindi l’avere un contatto diretto con chi poi comprerà il tuo disco, anzi lo finanzia in anteprima non sapendo neanche come sarà quel disco, senza neanche sentirlo prima, nemmeno un accenno di un singolo, come invece succedeva in passato, è una potenza incredibile. In più la cosa come dici va oltre al mero fatto economico e commerciale, è proprio uno stimolo enorme nel far bene quello che stai facendo cercando di coinvolgere chi poi ti finanzia in quello che fai dovendo sempre mantenere la distanza tra quello che tu scrivi e vai realizzare, quello che è il tuo lavoro che la tua testa ti dice di fare senza lasciarsi influenzare però dal mercato o da chi ti sta finanziando, altrimenti si creerebbe un corto circuito.

Detto questo, credo che sia una delle cose positive del web, web che ha creato invece delle cose molto negative riguardo alla musica soprattutto il fatto che la musica ormai è entrata di diritto nel fatto che deve essere gratuita, e siccome è gratis, la gente non ha più la concezione di pagare per ascoltar musica, di comprare un disco, un vinile, un cd, o comprarti le canzoni, perché siamo stati abituati che la musica è in streaming e la puoi metter su internet e te la ascolti. Chi è il deficiente che spende 20 euro per un vinile o un cd? Ci vuole un matto, ma io per esempio ancora compro vinili e dischi.

Però dall’altra parte ha creato queste piattaforme che ti permettono di realizzare progetti anche ambiziosi, come può essere stato “Indiani e Cowboy”, sfruttando appunto la forza di chi ti segue e la volontà di partecipare con te al tuo progetto. Tra l’altro Indiani e Cowboy era un progetto ambizioso, costoso, come in generale lo è fare dischi, quindi per fortuna esistono queste piattaforme, per fortuna esiste questo modo di autofinanziarsi e superare il declino sempre più evidente e costante delle case discografiche e del mercato discografico, che poi in qualche modo non esiste più.

 

Chiudiamo con l’unica domanda possibile, forse banale, mi scuso anzitempo. La copertina del tuo disco la dice lunga: è la speranza di abbattere distanze e discriminazioni? Secondo te ci riusciremo un giorno o avremo una distanza ancora più spinta tra Indiani & Cowboy?

La forza della copertina sta nell’idea di far capire come molte volte le diversità non esistono e il bene e il male spesso si confondono soprattutto nel mondo di oggi. E faremo sempre più fatica a distinguere il buono dal cattivo quando il mondo ci bombarda di notizie vere o false che siano e bisogna avere il sangue freddo e la capacità di distinguere e di cercare di mantenere la barra dritta nelle proprie scelte. Come tu poi immaginare la copertina è stata ispirata da un meraviglioso murales che è stato fatto all’indomani della formazione del nuovo governo, da lì ho preso spunto per questa copertina che per me significa davvero tanto e ancor di più per questo disco.


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