“Diventerei pazzo se non sparirei ogni tanto”.
Credo che nella crudezza e nell’accettazione di questa consecutio sia racchiusa l’essenza e il centro di questo messaggio sotto forma di canzoni che ci apprestiamo a fare nostro.
Mi accingo infatti ad ascoltare Calmo, ultima uscita del trapper Young Signorino, che arriva a noi sotto forma per la prima volta - dopo tanti singoli ed ep – di full lenght, un disco intero.
Non si tratta semplicemente di mettere insieme tante canzoni, e questo il nostro dimostra di saperlo bene, vuoi per i messaggi che lancia nelle interviste, nel tanto tempo aspettato prima di focalizzare una mossa del genere, e soprattutto nelle parole che compongono questa ragnatela sincera e sfrontata da cui, devo dire, è a tratti bello lasciarsi appiccicare.
La finzione e la plastica profondità di una produzione ineccepibile a firma di Samura, si colloca alle spalle di un messaggio crudo, diretto, che rasenta la forma di un verso improvvisato nei contenuti ma perfettamente architettato nella forma. In questo senso, la loro maniera di sposarsi quando funziona mi sembra impeccabile ed autentica.
La base di Fumo e fuggo che apre l’album ma che in realtà conoscevamo già da un mese in quanto usata da apripista insieme a Mon Amour, ci presenta le atmosfere che saranno il terreno delle parole del giovane trapper e colpisce l’oscura profondità di suoni nitidi e ben definiti. Il quadro sonoro è un’ottima base sulla quale ben si appoggiano i ritmi delle parole, tenuti in piedi dalla rigida costruzione dell’editing, lasciando la sensazione di un vero e proprio appoggio su cui le parole si tengono dritte. Tanto che quando si sbrigliano e prendono la sospirata libertà sembrano perdere l’equilibrio e cadere in un parlato, quasi fosse l’ultima spiaggia di un messaggio naturale. La sensazione che mi dà la somma di questi dosaggi mi ha sempre affascinato ed in questo contesto sembra reggere a dovere.
Flis de pute, la successiva traccia, abbandona invece questo equilibrio di messaggi precari per indirizzarsi su una canzone che sembra più un manifesto, un elenco di parole ed espressioni con cui sembra sforzata la volontà di rimanere attaccato, più per un senso di identità verso il genere, il momento, i follower, gli hater. E questa estrema chiarezza del messaggio mi banalizza quella riflessione che mi ero immaginato nell’episodio precedente; una canzone, questa, di certo non fuori dal tempo, ma strettamente legata al presente, diretta. Tanto che non me la sento minimamente addosso, mi passa vicino e sono già dentro a Lacrime.
L’ambiente più riflessivo e profondo mi sembra fare centro con molta più forza di quella ostentata dal linguaggio della precedente, forse perché si sposano meglio parole, intenzioni e sound.
Lacrime è un altro episodio felice ed arriva in tutta la sua inquietudine esattamente dove deve anche al primo ascolto. Penso che forse in Fils de pute una base più grezza e “stronza” avrebbe strizzato, pur nel suo didascalismo, l’occhio nella direzione giusta, magari arrivando più dritta al punto.
“Quante volte ho detto non ce la faccio più asciugando lacrime sopra i miei face tattoo”
Finisce in fretta, sembra essere volata ed è un pregio, anche quando – come in questo caso – siamo di fronte ad una struttura canzone ridotta all’osso. Ma se il messaggio arriva a destinazione, la forma sarà anche risicata ma innegabilmente giusta.
Parte La Via e il sospiro trattenuto a cui ti costringe l’assenza del prima colpo di cassa, doom che dir si voglia è una bella sensazione con cui confrontarsi e musicalmente ancora la testimonianza di una cura del suono e della scrittura davvero sopra le righe. Così come quella stortura di intonazione del basso sul secondo giro del ritornello, scuola, tecnica, ma sensazioni che arrivano e vincono.
E non voglio dimenticare la base armonica di pad e arpeggiatore che somiglia in maniera curiosa e positiva al capolavoro Sing dei Blur. La cosa gioca a favore anche se la monotonia del testo, del cantato, dell’immancabile vocoder, stavolta non lascia il segno al 100%. Si sfiora la dub ed in questo senso riequilibrio e giustifico per un attimo il mio parere, visto che in quel territorio la ripetitività del basso, degli accordi, del ritmo è necessaria per avvolgerti nel messaggio, in episodi che possono arrivare a 7 – 10 minuti. Ma no, non mi arriva del tutto in tre minuti e mezza.
Anche Calmo, title track dell’album, si siede in terreni posati, rilassati e dilatati. E poi arriva - come uno schiaffo in faccia ad interrompere il dondolio della culla - lo spaccato tra passato e presente con due frasi affiancate e inequivocabili: “piangi per cosa scrivo, perché senti il casino dentro che avevo io_ora ogni minuto me lo vivo, perché ora sento il motivo”.
Chiara e limpida la dichiarazione di abbandono di una fase autentica e di “casino” in favore di un “ora” per cui stavolta si sente il motivo per viverselo ogni istante, ma ancora assolutamente “autentico”.
In tutto questa chiarezza di messaggi e di arrangiamenti ben orchestrati, capisco anche quanto siano pochi gli ingredienti messi in ballo nel suono, tanto che potrei metterli nelle dita di una mano; dal ritmo al basso, l’immancabile tappeto sonoro, definito da interventi appuntiti e freschi là in alto e definiti dall’ultima variabile di ogni pezzo, i temi dal suono variabile che giocano ad incastrarsi col ritmo della voce.
Un po’ come fanno la tromba o i legni in lontananza in “Mon Amour”, un episodio dal sapore caraibico, di facile presa, ed infatti usato insieme alla prima “Fumo e fuggo”, come antipasto al disco. Che di antipasto, diciamocelo, ha poco del mood più scuro e riflessivo che è il sapore portante del resto dei brani visti finora. E riascoltandolo insieme sembra un piccolo pesce fuor d’acqua.
Un suono che ricorda lievemente Badalamenti e quel tappeto che stava sotto ai segreti di Twin Peaks apre “La Luna mi guarda”.
La monotonia degli ingredienti produttivi stavolta mi gioca un brutto scherzo e mi annoio all’ascolto all’inizio della prima strofa, nonostante il suono sia di mio gradimento. Mi va tutto stretto, il moog e quei giochi d’intonazione, i controcanti col vocoder. E soprattutto lei, la struttura risicata A_B_A, rimediata con un inizio pezzo dal ritornello e una coda inaspettata che creano un insolito B_A_B_C.
Non so perché, mi perdoneranno, ma più che geniale la soluzione mi sembra rattoppata.
Parte “Jet”, l’unica traccia a superare i 4 minuti e lo fa ipnotizzando con un ritmo poggiato su suoni ed ambienti mediorientali. C’è qualcosa di bello ed unico in questo episodio e finalmente mi sento di ristar toccando quel picco da cui siamo partiti e su cui avevo sperato o forse fantasticato. Il ritornello in primis è l’elemento in più che funziona, vuoi per la melodia ma soprattutto per quel senso di svuotamento. Tutto ciò si scontra stavolta con un testo che mi arriva limpido e banale con la semplicità di una richiesta di un bambino – “sai che io sono il tuo jet_ti posso portare a toccare le nuvole”, ed io sono qui che penso se accettare e digerire l’ovvietà del messaggio in tutta la sua franchezza o riluttarlo come una frase che non mi appartiene.
Perché che non mi appartenga la maggior parte del messaggio contenuto in questo album è un aspetto non di poca importanza nel mio affezionamento, il quale però non si infastidisce con la voglia di esserne lambito.
Il binomio che chiude il disco è un punto di vista parallelo, a dodici ore distanza, della stessa cosa.
“22 settembre AM” e “22 settembre PM” si annunciano come interessanti.
La prima si presenta con una tensione palpabile, quasi la preparazione ad un evento, l’attesa di una scintilla che faccia finalmente scattare qualcosa di tanto aspettato, o comunque di inevitabile.
Anche il testo va in quella direzione, descrittivo, annoiato, di attesa ed alla fine non succede niente. Come è giusto che sia, penso. Perché magari l’evento è il secondo episodio, PM.
Notturno, così si presenta, in attesa anche questa di qualcosa, di un evento, o forse semplicemente della notte e dei lampioni che si accendono in preparazione alla notte col testo che sembra una rilettura parallela ed in chiaroscuro di quanto avevo appena sentito.
Niente succede neanche adesso e capisco che forse è stata proprio quell’attesa fine a sé stessa a creare un messaggio nebuloso e coinvolgente, per me il punto più interessante di tutto il disco ed avvenuto per mezzo di due canzoni. Strano, visti i tempi in cui si valorizza e punta tutto su un singolo, avere innanzitutto un album, al cui interno due canzoni vanno a braccetto e acquistano piena compiutezza solo con la presenza dell’altra.
In questo è innegabile il raggiungimento di un punto più alto, sotto l’aspetto artistico, sposato dalla produzione di Samura, che porta tutto ad un livello di sicurezza, come se fosse un salvagente in grado di garantirci che no, non andremo sotto il livello del mare, non affogheremo.
Una soluzione che sale da un lato ma si restringe dall’altro, prettamente messaggistico, di personaggio che è stato per un momento l’emblema di un vuoto, il quale affronta questo spazio difficile, lo supera e ce ne vuol rendere partecipi.
Stiamo parlando di un buon disco, un buon prodotto che in alcuni momenti crea un’unione con la voce interessante, diventando qualcosa di nuovo. Ed è una buona sensazione.
Nonostante lo preferisca a ciò che era il Young Signorino di “Mmh ha ha ha”, e la presenza di “Fumo e fuggo”, “La Via” ed il binomio finale sulle due “22 settembre” sono degli ottimi punti d’arrivo, non sento niente di vincente.
Un buon prodotto, forse un buon punto di partenza più che di arrivo. Ben impacchettato ed omologato, con alcune canzoni molto interessanti e con un loro peso, ma con un messaggio talmente scavato nel personale dal renderlo a mio avviso meno affilato.
Perché se quello che ha spopolato aveva dalla sua un’innegabile dose di trasparenza e follia che lo rendevano riconoscibile ed allo stesso tempo “amorfo”, in questo passo evolutivo verso la riflessione, la calma, tutto sembra essere sin troppo spiegato e chiaro.