Call To Arms And Angels è il dodicesimo album in studio del collettivo londinese Archive, il primo da The False Foundation, pubblicato nel 2016. Un disco ponderoso (un'ora e quarantacinque minuti per 17 canzoni), complesso ed estremamente variegato, un mix suggestivo in cui convivono elettronica, progressive, trip hop, scorie industrial, inaspettate pennellate pop, minimalismo ed enfasi sinfonica, e in cui vengono calamitati echi di Massive Attack, Radiohead e Anathema.
Un disco figlio di due anni terribili, fotografia spietata del mondo in cui oggi viviamo, Call To Arms And Angels ritrae non solo le frustrazioni e le sfide individuali e collettive della band, ma anche la realtà e le lotte quotidiane che tutti gli esseri umani si sono trovati ad affrontare a causa della pandemia, del lockdown, della solitudine, del forzato distanziamento, della mancanza di speranza e prospettive.
Una corrente oscura attraversa la lunga scaletta dell’album, in un viaggio dal mood cupo, ansiogeno e apocalittico, in cui il dramma del recente passato affiora prepotente, nelle liriche e nei suoni. C’è però anche spazio per la speranza, perchè Call To Arms & Angels è un disco dallo sviluppo discontinuo, costruito sulla stratificazione delle emozioni, e proprio quando il dolore prende piede con tutta la sua drammaticità, ecco inaspettatamente aprirsi finestre su territori meno ostici, più consolatori, dove l’ascoltatore viene avviluppato da vapori nostalgici, dal caldo lenimento della malinconia, dalla carezza salvifica di raggi di sole che suggeriscono quiete e speranza.
Si oscilla così, in un consapevole andamento altalenante, tra (e)stasi emotiva e vorticose accelerazioni, tra il clangore di maligne derive elettroniche e momenti di sospensione, in cui il dolore e la rabbia si trasformano in qualcosa di più intimo e meditabondo. Il bianco e nero è dunque mitigato da visioni di tenui colori pastello, e là in fondo, dietro l’assieparsi delle ombre, si intuisce la luce alla fine del tunnel.
Attenzione, però, perché la battaglia non è finita, la guerra è ancora in atto. E’ questa triste presa di coscienza che apre il disco con l’apparente dolcezza di "Surrounded By Ghosts", una canzone, in realtà, inquieta, che cela dietro una carezzevole malinconia, disturbata però, da accordi di piano in minore e da un sottofondo dissonante, tutta l’angoscia dei nostri giorni: “C'è una guerra C'è ancora una guerra in corso, Grido di battaglia, Il grido di battaglia non sta svanendo. E se restiamo vivi, Possiamo dire loro cosa abbiamo vinto E se rimani vivo, Puoi dire loro cosa hai fatto”. Un invito alla resistenza, a non mollare, nonostante un presente violento e un futuro a tinte fosche.
Un disco altalenante, dicevamo, in cui l’apparente calma iniziale viene spazzata via dallo sferragliare minaccioso di "Mr Daisy", e poi, ancora dalle volute discendenti del rock di "Fear There And Everywhere", cinica presa di coscienza di quanto i media abbiano manipolato l’informazione durante i giorni della pandemia, inducendo nelle persone incapaci di razionalizzare un’immotivata e onnivora paura (“La paura è ovunque, Brucia dentro di me, La paura è ovunque. Uccidendo la luce in me”).
La corsa ansiogena di "Numbers" si arresta innanzi al morbido velluto di "Shouting Within", che regala un altro momento di quiete, per riflettere su come le connessioni umane siano state paralizzate dall’incertezza e dalla paura, e come la gente, arrabbiata e vulnerabile, sia rimasta intrappolata in un meccanismo kafkiano, in cui il desiderio di intimità e di rapporti umani viene frustrato dalla paura del contatto fisico. Un senso claustrofobico, che viene racchiuso nei quattordici minuti di stratificazione elettronica della successiva "DayTime Coma" o nell’inquietante progressione di "Enemy", resoconto di una battaglia senza requie contro i propri nemici interiori che esplode in una seconda parte pervasa da una rabbia quasi belluina.
Perché la mente, nelle mille difficoltà di una pandemia, vacilla e rischia di perdersi (“Nuoti nelle acque del dolore nella tua mente, Tirandoti sotto” recita il testo dell’ondivaga "Every Single Day") e tutto quello che chiede è la libertà, di movimento e di pensiero, evocata nella straniante "Freedom", un inaspettato esperimento in cui confluiscono hip hop e melodia beatlesiana.
E mentre questo lungo viaggio emotivo volge al termine, gli Archive rispolverano l’antico amore per il trip hop seducendo con l’incedere malinconico di "All That I Have" e con la rassegnata progressione melodica della struggente "We Are The Same".
C’è ancora spazio per il mantra ossessivo di "Alive", corale presa d’atto di esistenza in vita (splendido l’utilizzo delle voci, che a tratti evocano i CS&N), che racchiude, però, la desolante consapevolezza che viviamo in un mondo egoista, incapace di solidarietà umana (“Non posso aiutarti, Per favore, vattene via”), per l’arresa disperazione di "Everything Alright", la cui dolente veste malinconica è dirimpettaia dei momenti più intimi dei Radiohead, il delirio elettronico dell’angosciante "The Crown" e le scorie trip hop della conclusiva "Gold", in cui l’atarassia è proposta come l’unica strada da imboccare per superare i drammi dell’esistenza.
Call To Arms And Angels è un’opera impegnativa e di difficile assimilazione, mastodontica nell’esposizione, eppure coerente nei concetti veicolati, e con una visione d’insieme centratissima, capace di dare coerenza a una scaletta dalla struttura variegata e complessa. Un disco di una bellezza magnetica e, spesso, struggente, a cui manca solo l’hype, che di questi tempi viene dato a opere di gran lunga meno interessanti. Se ne parlerà poco, quindi, ma, a parere di chi scrive, siamo di fronte a un lavoro da annoverarsi come una tra le migliori uscite del 2022.