Non è uno di quei gruppi con cui sono cresciuto, mi ci sono avvicinato piuttosto tardi, ma me ne sono innamorato all’istante; ora come ora, tra tutti gli act classificabili in qualche modo nel filone “Roots” o “Americana”, loro sono senza dubbio quelli a cui sono maggiormente affezionato.
Questo ritorno improvviso dopo una lunga assenza non è una novità: già il precedente “Somewhere Under Wonderland” era arrivato a sette anni dal precedente disco in studio (c’era però stato un album di cover nel mezzo) e Adam Duritz non è certo uno che pubblica pezzi per il gusto di farlo.
“Butter Miracle, Suite One” (non si tratta di un album intero quindi speriamo che quel “one” del titolo stia a significare che ce ne saranno altri) ha messo fine ad un lungo digiuno creativo e lo ha fatto nel modo in cui di solito si riprende l’ispirazione: succede e basta.
Adam Duritz, nel lungo scritto di presentazione in allegato ha raccontato di aver passato parecchio tempo da solo in una fattoria di proprietà di un suo amico, con l’unica compagnia di qualche bestia e solo la sua ragazza che veniva ogni tanto a trovarlo. È stato lì per gran parte del 2019 e ad un certo punto, durante le lunghe camminate nella campagna inglese, è nata “The Tall Grass”. Da qui, la sperimentazione con un giro di accordi ha generato “Elevator Boots”: chiaramente un’altra canzone ma allo stesso tempo legata alla precedente, come in una suite. Ed ecco che nella sua mente è scattato il “clic” definitivo: avrebbe scritto una serie di canzoni tutte legate insieme, come i diversi capitoli di un unico pezzo, come una suite, appunto.
La prima musica nuova dei Counting Crows da sette anni a questa parte è dunque costituita da quattro canzoni legate tra loro come spesso si fa in un concerto, che si tratti di un medley o di un modo per far salire a mille l’adrenalina degli spettatori.
La stanchezza e la disillusione per i meccanismi del music business sofferta dal cantante e paroliere subito dopo l’ultimo tour, si è stemperata attraverso quelle camminate solitarie, meditando su quanto l’essere sempre connessi, sempre tracciabili, rischi di farci perdere la coscienza della vera dimensione della vita, che è invece sempre qualcosa di molto più grande e di irriducibile a qualunque schematismo. La solitudine della campagna, descritta specularmente al folle caos di una metropoli come New York, che fa invece da sfondo ad “Angel of 14th Street.” costituisce il punto di partenza ideale per un ritorno al passato, con qualche divertente rievocazione della giovinezza e la creazione di una band immaginaria, raccontata dalla prospettiva di un musicista e da quella di un fan, un modo di ridirsi per l’ennesima volta quanto sia bella la strada della musica, nonostante tutte le difficoltà incontrate sul cammino.
Per il resto, niente di nuovo sotto il sole, abbastanza normale per un gruppo che pur tra piccole variazioni stilistiche tra un disco e l’altro, non ha mai mutato più di tanto le proprie coordinate.
“The Tall Grass” in apertura ha un piglio da ballad e un mood sognante, un po’ da Folk bucolico. “Elevator Boots” è l’episodio più rock ed ha l’andamento trascinante delle migliori song della band, già sentita quanto si vuole ma dannatamente efficace, non a caso è stata scelta come singolo.
“The Angel of 14th Street” è leggermente più elaborata, un ritornello che crea una bella apertura melodica e un inserto di fiati ad impreziosire il tutto. Per quanto mi riguarda, “Bobby and the Rat-Kings” è semplicemente il pezzo che Bruce Springsteen non riesce più a scrivere, epica e potente come nella migliore tradizione del rock americano, un break centrale pianistico che va a ricollegarsi alla grandeur di brani come “Backstreets” e “Jungleland”. Esagero se dico che è una delle cose migliori che questa band abbia mai fatto in carriera? Probabilmente sì ma qualcosa mi dice che sarà in grado di resistere alla prova del tempo.
Il tutto, ça va sans dire, con la solita prova maiuscola da parte di un ensemble sempre impeccabile nel cesellare arrangiamenti semplici quanto efficaci, un gruppo che nonostante gli anni di stop appare più in forma che mai, aiutato anche dalla scintillante produzione di Brian Deck.
Quattro pezzi per appena diciotto minuti sono decisamente pochi ma il livello qualitativo così alto fa ben sperare per un seguito, se e come vorranno darglielo. Nel frattempo ringraziamo che siano tornati, devo dire che negli ultimi tempi non ci speravo più.