Molly Tuttle è una ragazza predestinata, un talento così cristallino da aver attirato l’attenzione su di sé, prima ancora di iniziare una vera e propria carriera. Parlano i fatti. La Tuttle si è portata a casa due onorificenze di peso: quella della alla Folk Alliance International per la canzone dell’anno (You Didn’t Call My Name) e quella dell'International Bluegrass Music Association come chitarrista dell'anno, entrambe grazie al suo Ep Rise datato 2017. La lunga distanza, il full lengh d’esordio, arriverà solo due anni più, nel 2019, con la pubblicazione di When You’re Ready, disco che ha avuto più che discreti riscontri di vendite e un’accoglienza, da parte della critica, a dir poco calorosa.
A inizio 2020, la Tuttle aveva iniziato a lavorare al sophomore, ma poi la situazione è precipitata: il covid, la pandemia, il lockdown, i morti, la vita artistica e concertistica dell’intero globo paralizzate. Lei, fieramente nashvilliana, ha pensato alla sua città, il cui nome, privato del suffisso “musica”, suona vuoto e senza significato; così, non potendo provare le nuove canzoni in compagnia dei suoi musicisti, ha accantonato i lavori per il nuovo album e ha pensato di guardarsi indietro e di scegliere un pugno di brani amati visceralmente. Ha così iniziato a lavorare a questo songbook di cover, ovviando al lookdown e al distanziamento sociale tramite l’utilizzo del pc: ha registrato le proprie basi, le ha spedite all’amico e produttore Tony Berg e poi a tutti i musicisti coinvolti nell’operazione (compaiono anche Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show e Matt Chamberlain, batterista e stretto collaboratore di Tori Amos), in modo che le completassero.
“Abbiamo lavorato alle canzoni come fanno gli astronauti”, scrive Molly nelle note di copertina, i file che giravano la rete per arricchirsi di nuove note a ogni nuovo invio. Ecco, quindi, spiegato il senso della copertina (la Tuttle triplicata sullo sfondo del cosmo) e il titolo del disco, che suggerisce il rammarico di non aver potuto registrare le canzoni con la presenza fisica dei suoi collaboratori e amici.
In scaletta, dieci canzoni quasi tutte distanti dal genere country folk e bluegrass, che solitamente rappresenta il piatto forte della casa: ci sono grandi classici (She’s A Rainbow da Their Satanic Majesties Request dei Rolling Stones e Standing On The Moon da Built To Last dei Grateful Dead) e riproposizioni di canzoni molto piu’ recenti, come Fake Empire dei The National, che apre il disco, Mirrored Heart di FKA Twigs e Sunflower Vol. 6 da Fine Line di Harry Styles.
Ogni brano è suonato con eleganza e gran classe, la voce della Tuttle si è arricchita di ulteriori sfumature e la sua straordinaria tecnica chitarristica è un dato di fatto incontrovertibile. I momenti migliori sono, però, la riproposizione della citata Standing On The Moon e la conclusiva How Can I Tell You, gioiellino datato 1971 e preso da Teaser And The Firecat di Cat Stevens, due brani, questi, che si sposano alla perfezione con la cifra stilistica della Tuttle. Il resto è, comunque, piacevole, anche se, a dire il vero, mancano quel colpo di coda o quell’intuizione che trasformano le cover in scaletta in qualcosa di davvero diverso e intrigante.