Eccoci qui, recita il titolo dell’undicesimo album in studio dei Foo Fighters. Eccoci qui, di nuovo, nonostante il dolore e le lacrime versate, nonostante il vuoto lasciato dalla perdita di Taylor Hawkins, l’amico di sempre, il batterista, colui che era il collante del suono, della band, dei tanti capitoli di questa storia lunga quasi trent’anni. Una perdita esiziale, di quelle che ti fanno venir voglia di mollare tutto, di mettere la parola fine al marchio FF. Il rock, però, dà forza, è lenimento, è energia vitale. E allora, riproviamoci, torniamo a suonare e a misurarci con l’assenza, riempiendo ogni interstizio lasciato aperto dal dolore con la musica, quella speranza inesauribile che ci fa dire, ancora una volta: eccoci, noi ci siamo.
Se il precedente Medicine At Midnight (2021) flirtava con il pop, il soul e il r&b, But Here We Are torna a parlare il verbo che David Grohl ha sempre declinato, quello di un rock da stadio roboante, carico di energia, forgiato nel metallo di melodie easy dal sapore bubblegum, pronte a intasare le frequenze radiofoniche e a essere cantate a squarciagola sotto il palco.
Eppure, nonostante questo sia un disco per buona parte musicalmente luminoso come una giornata di sole primaverile, il fantasma di Hawkins aleggia ovunque, e tra la vibrante elettricità di buona parte della scaletta si assapora il gusto agrodolce della malinconia (il frontman, non dimentichiamolo, ha di recente perso anche la propria madre). “I’m just waiting to be rescued, bring me back to life”, canta Grohl nell’iniziale "Rescued", e ancora “I’ve been hearing voices, but none of them are you, speak to me, my love”, nel finale di "Hearing Voices". E allora tutto è chiaro: la perdita esiziale, il dolore, la salvezza che arriva attraverso il potere rigenerante della musica. E’ questo il senso che permea But Here We Are, un disco che non tradisce le aspettative dei fan, che ci restituisce il meglio di una band ispiratissima, ma che deve fare il conti con un dolore che il tempo può solo attenuare, ma che non cancellerà mai del tutto.
Il “white album” dei Foo Fighters inizia a velocità supersonica con la citata "Rescued", un brano Foo Fighters che più Foo Fighters non si può: chitarre rombanti, una debordante potenza punk rock e una di quelle incredibili melodie, che spingono a cantare come forsennati fin dal primo ascolto. Eccola tornata, la creatura di David Grohl, ecco quel suono che i fan amano e che scuote il corpo come una scarica di elettricità ad alta tensione. Anche la successiva Under You si muove sulle stesse coordinate, è una cavalcata a briglia sciolta che punta dritta l’orizzonte, attraverso i territori di quel rock mainstream che i Foo Fighters sanno maneggiare come pochi al mondo. "Hearing Voices", invece, abbassa il volume dei decibel, è un mid tempo malinconicamente orecchiabile, che si apre in uno dei ritornelli più intensi mai scritti da Grohl.
Un fantastica tripletta iniziale che spiega molto bene l’andamento del disco. Da un lato, la ricerca di un suono duro e puro, quello che ormai è diventato un marchio di fabbrica, sotto la cui egida sono stati pubblicati disco splendidi come One By One (2002) e In Your Honor (2005), dall’altro, invece, un approccio meno rumoroso, più funzionale a testi che indagano sulla vita, la morte, il dolore, la speranza. Ecco, allora, che nelle dieci canzoni, in scaletta, da un lato, troviamo la rabbiosa title track, cadenzata e potente, e la superlativa "Nothing At All", il brano migliore del lotto, che abbina un irresistibile groove a un crescendo tutto muscoli e potenza, nel quale si possono cogliere scorie di nirvaniana memoria, e dall’altro, momenti di autentico struggimento, come l’ariosa e beatlesiana "Beyond Me", il velluto melodico su cui scivola morbidissimo il ritornello di "Show Me How", cantata da Grohl in duetto con la figlia Violet, o il finale raccolto e francescano della sussurrata Rest.
I Foo Fighters, si sa, sono una delle band più divisive del pianeta, amatissima dai fan, e snobbata da coloro che giudicano il gruppo come una realtà troppo mainstream per avere credibilità. Tuttavia, a prescindere dalle posizioni delle due fazioni, But Here We Are, pur essendo marchiato a fuoco dal classico suono della band, è un disco rock suonato e composto in grazia di Dio, contenete canzoni di alto profilo e un ottimo livello di ispirazione. Chissà, quindi, che non faccia cambiare idea a qualche detrattore. Per tutti gli altri, per chi è cresciuto con la musica dei Foo Fighters a infiammare le casse dello stereo, questo nuovo album è al contempo conferma e certezza. Alzate, quindi, il volume al massimo e godetevi la festa. La goduria è assicurata.