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REVIEWSLE RECENSIONI
01/02/2024
Dom Martin
Buried In The Hail
Al terzo album in studio, il giovane chitarrista di Belfast realizza il suo lavoro più compiuto, intrecciando acustica ed elettrica per un suono classicissimo e appassionato.

Un nome che da qualche anno circola con insistenza fra gli appassionati di blues è quello di Dom Martin, chitarrista originario di Belfast, Irlanda, giunto con questo Buried In The Hail al suo quarto album. La sua è stata una carriera rapida e in costante ascesa: l’album d’esordio del 2019 lo ha portato a essere nominato miglior artista solista acustico agli European Blues Awards dello stesso anno, nel 2022 è stato il rappresentante del Regno Unito all'International Blues Challenge di Memphis, dove si è classificato secondo, e il suo secondo album in studio, A Savage Life (2022), gli è valso cinque nomination agli UK Blues Awards del 2023. Il suo approccio alla chitarra è stato inevitabilmente accostato a quello del leggendario Rory Gallagher, e la sua voce è stata spesso paragonata a quella di John Martyn e Van Morrison.

Accompagnato da Ben Graham al basso e contrabbasso e Jonny McIlroy alla batteria, Martin ha attirato l’attenzione per la sua bravura alla chitarra acustica, ma si distingue anche per tecnica e fantasia all’elettrica e per essere un paroliere di prim’ordine. Le sue sono basi blues solidissime, ma il suo songwriting risulta anche contaminato da sonorità folk e rock, che rendono questo nuovo Buried In The Hail un disco vario e ricco di sfumature. 

 

L'album si apre con la breve e bucolica strumentale "Hello in There", il tono è rilassato, le languide note di chitarra accompagnano le risate di bimbi che giocano, il mood è trasognato e dolcissimo. Una carezza all’ascoltatore, che subito dopo si trova invischiato nel blues cadenzato e classicissimo di "Daylight I Will Find", chitarra slide, il pensiero che vola a Gallagher e la voce bollente di Martin che si apre a una dichiarazione d’intenti: “Non è una questione di soldi, fratello, non ho guadagnato un centesimo". "Government" è una ballata acustica venata di malinconia in cui il chitarrista fa il punto sulla situazione politica mondiale, esprimendo con mestizia tutto il suo disappunto andando dritto al centro della questione: "È ora di finirla, Lo ammetto, Mi fa venire la nausea".

Con "Belfast Blues", Martin torna alla chitarra elettrica, getta uno sguardo sulla sua vita passata e gli anni difficili della città, il mood si fa cupo, la batteria di Jonny McIlroy e il basso di Ben Graham tengono un ritmo frenetico, la voce è profonda, ferita. "Crazy" di Willie Nelson è l'unica cover dell'album, Martin l’ha scelta perché è da sempre una delle sue canzoni preferite. Tuttavia, nella sua versione non c'è nulla di country, il brano ha una veste nuova, la tensione è palpabile, la voce di Martin evoca Tom Waits, il crescendo è emozionante.

Lo spettro espressivo del chitarrista resta vario, è ricco di cambi di direzione, tiene incollato all’ascolto. "Unhinged" è il brano più duro del lotto, la chitarra è distorta, il tiro è ruvido, cattivo, il groove funkeggiante è strattonato da un intenso assolo alla sei corde. Nemmeno il tempo di detergere il sudore, che parte la splendida "The Fall", ballata per fingerpicking e silenzio, voce cavernosa e melodia malinconicissima, elementi che conducono in territori più intimi e meditabondi. C’è ancora tempo per uno vibrante omaggio a Howlin’ Wolf ("Howlin’"), per l’oscura ed evocativa title track, ferita a sangue da velenose sciabolate slide, e per l’inquietante e minacciosa "Lefty 2 Guns", incedere e assolo che sembrano omaggiare un altro grande di Belfast, Gary Moore. L'album termina come era iniziato, con un breve strumentale acustico, "Laid to Rest", ma questa volta l’atmosfera è scarna, scricchiolante, quasi fosca.

 

Si chiude così un disco che, anche dopo ripetuti ascolti, non smette di stupire, e il cui impianto decisamente classico si esprime, però, attraverso una tavolozza di colori, prevalentemente cupi, che rendono l’insieme stimolante e ricco di momenti coinvolgenti. Martin sa il fatto suo, scrive bene e suona anche meglio, e il suo artigianato irlandese è un ulteriore dimostrazione che, anche in Europa, il blues gode di ottima salute.