Un nome che da qualche anno circola con insistenza fra gli appassionati di blues è quello di Dom Martin, chitarrista originario di Belfast, Irlanda, giunto con questo Buried In The Hail al suo quarto album. La sua è stata una carriera rapida e in costante ascesa: l’album d’esordio del 2019 lo ha portato a essere nominato miglior artista solista acustico agli European Blues Awards dello stesso anno, nel 2022 è stato il rappresentante del Regno Unito all'International Blues Challenge di Memphis, dove si è classificato secondo, e il suo secondo album in studio, A Savage Life (2022), gli è valso cinque nomination agli UK Blues Awards del 2023. Il suo approccio alla chitarra è stato inevitabilmente accostato a quello del leggendario Rory Gallagher, e la sua voce è stata spesso paragonata a quella di John Martyn e Van Morrison.
Accompagnato da Ben Graham al basso e contrabbasso e Jonny McIlroy alla batteria, Martin ha attirato l’attenzione per la sua bravura alla chitarra acustica, ma si distingue anche per tecnica e fantasia all’elettrica e per essere un paroliere di prim’ordine. Le sue sono basi blues solidissime, ma il suo songwriting risulta anche contaminato da sonorità folk e rock, che rendono questo nuovo Buried In The Hail un disco vario e ricco di sfumature.
L'album si apre con la breve e bucolica strumentale "Hello in There", il tono è rilassato, le languide note di chitarra accompagnano le risate di bimbi che giocano, il mood è trasognato e dolcissimo. Una carezza all’ascoltatore, che subito dopo si trova invischiato nel blues cadenzato e classicissimo di "Daylight I Will Find", chitarra slide, il pensiero che vola a Gallagher e la voce bollente di Martin che si apre a una dichiarazione d’intenti: “Non è una questione di soldi, fratello, non ho guadagnato un centesimo". "Government" è una ballata acustica venata di malinconia in cui il chitarrista fa il punto sulla situazione politica mondiale, esprimendo con mestizia tutto il suo disappunto andando dritto al centro della questione: "È ora di finirla, Lo ammetto, Mi fa venire la nausea".
Con "Belfast Blues", Martin torna alla chitarra elettrica, getta uno sguardo sulla sua vita passata e gli anni difficili della città, il mood si fa cupo, la batteria di Jonny McIlroy e il basso di Ben Graham tengono un ritmo frenetico, la voce è profonda, ferita. "Crazy" di Willie Nelson è l'unica cover dell'album, Martin l’ha scelta perché è da sempre una delle sue canzoni preferite. Tuttavia, nella sua versione non c'è nulla di country, il brano ha una veste nuova, la tensione è palpabile, la voce di Martin evoca Tom Waits, il crescendo è emozionante.
Lo spettro espressivo del chitarrista resta vario, è ricco di cambi di direzione, tiene incollato all’ascolto. "Unhinged" è il brano più duro del lotto, la chitarra è distorta, il tiro è ruvido, cattivo, il groove funkeggiante è strattonato da un intenso assolo alla sei corde. Nemmeno il tempo di detergere il sudore, che parte la splendida "The Fall", ballata per fingerpicking e silenzio, voce cavernosa e melodia malinconicissima, elementi che conducono in territori più intimi e meditabondi. C’è ancora tempo per uno vibrante omaggio a Howlin’ Wolf ("Howlin’"), per l’oscura ed evocativa title track, ferita a sangue da velenose sciabolate slide, e per l’inquietante e minacciosa "Lefty 2 Guns", incedere e assolo che sembrano omaggiare un altro grande di Belfast, Gary Moore. L'album termina come era iniziato, con un breve strumentale acustico, "Laid to Rest", ma questa volta l’atmosfera è scarna, scricchiolante, quasi fosca.
Si chiude così un disco che, anche dopo ripetuti ascolti, non smette di stupire, e il cui impianto decisamente classico si esprime, però, attraverso una tavolozza di colori, prevalentemente cupi, che rendono l’insieme stimolante e ricco di momenti coinvolgenti. Martin sa il fatto suo, scrive bene e suona anche meglio, e il suo artigianato irlandese è un ulteriore dimostrazione che, anche in Europa, il blues gode di ottima salute.