La cosa incredibile dei Beach Fossils è la leggerezza con cui fanno le cose. Quando scelgono un nome, lo tirano fuori a caso da un quaderno di appunti. Quando progettano le copertine dei loro dischi, abbracciano un minimalismo fin troppo spinto. E quando deviano dal sentiero principale – un sapiente mix di dream pop e pop barocco sporcato con un pizzico di lo-fi – fanno la cosa più cringe del mondo, reinterpretando in chiave jazz i loro pezzi più famosi, una cosa che neanche gli Style Council di Confessions of a Pop Group.
Quando si tratta di musica, però, i Beach Fossils sono la band più rigorosa del mondo. Fin dal loro debutto – coinciso con quello di altre band affini come Wild Nothing, DIIV e Beach House – i quattro di Brooklyn hanno un po’ alla volta ampliato il loro spettro sonoro, fino a giungere con il terzo album, Somerset (2017), al capolavoro. Coinvolgendo per la prima volta gli altri membri della band nel processo di scrittura, Dustin Payseur ha fornito ai Beach Fossils un suono cinematico, mantenendo comunque quel retrogusto malinconico che le canzoni del gruppo hanno sempre avuto.
Sei anni dopo, con Bunny i Beach Fossils non solo riprendono idealmente il discorso lasciato in sospeso con Somerset, ma si guardano indietro, reintroducendo nel sound del gruppo alcune sfumature sonore caratteristiche dei loro dischi precedenti. Il risultato è un album che è una sorta di best of di inediti, capace di mettere insieme quanto di meglio fatto dai Beach Fossils fin qui. Per cui rimangono gli archi in Somerset ma tornano anche le chitarre tintinnati del disco di debutto e le influenze noise di Clash the Truth, sui cui si inserisce la voce diafana e piacevolmente psichedelica di Payseur, impegnata a raccontarci quando sia buffa e surreale la vita, anche (e forse soprattutto) nei suoi momenti più tristi.
In un’intervista a Mojo di qualche anno fa, spiegando quanto la sua musica sia influenzata dal taoismo, Payseur ha detto: «Si tratta di cercare di non forzare le cose e di lasciare che vengano da te. È già tutto lì dentro». Non sappiamo se anche Bunny sia stato ispirato da questa celebre dottrina cinese, però è difficile non rimanere stupiti dalla facilità di scrittura dei Beach Fossils, capaci come sono di rielaborare sapientemente le loro influenze per creare un prodotto finale che è al tempo stesso nuovo e familiare. Per cui ecco le chitarre alla Byrds che dominano l’intero disco, quel piacevole retrogusto shoegaze di “Feel So High”, quella gentile brezza di psichedelia inglese che soffia in più di qualche canzone, il groove di “(Just Like the) Setting Sun” che mette insieme Ride e Spiritualized, il delicato post-punk di “Don’t Fade Away”, gli immancabili The Cure, che alla fine dei conti si rivelano forse l’influenza più forte all’interno del disco.
Su tutto, però, si staglia un enorme senso di pace e serenità, come se i Beach Fossils avessero il pieno controllo della loro scrittura, grazie a canzoni costruite sapientemente, fatte di piccoli dettagli sonori che si rivelano solo dopo ripetuti ascolti. Forse Bunny non è l’album più sorprendente della loro discografia, ma senza dubbio è quello dove i quattro di Brooklyn dimostrano di essere maggiormente consapevoli delle loro capacità. Sta a vedere che quella che all’apparenza sembra solo distaccata leggerezza in realtà è la forma più alta di saggezza.