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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
27/03/2023
Edgar Winter
Brother Johnny
Affetto, rispetto e anche un pizzico di rivalità: quando si è fratelli ed entrambi ottimi musicisti è normale provare tali sentimenti, soprattutto se si diventa rockstar e occorre condividere la bellezza e la difficoltà di essere famosi. Edgar è meno celebre di Johnny, ma spesso l’ha accompagnato in quel mondo demoniaco che è lo show business e l’approccio nei suoi confronti, pur fra infinite complicazioni, è sempre stato sincero e genuino, come dimostra questo commovente tributo alla grandezza del chitarrista texano. Un disco splendido, che ha recentemente ricevuto pure un grammy per il migliore album di blues contemporaneo.

“La musica ci ha legato indissolubilmente, ma prima di tutto eravamo fratelli inseparabili e il fatto di essere entrambi albini ha influito enormemente sul nostro rapporto: condividevamo una prospettiva personale unica della vita”.

 

Quando, nel luglio 2014, nel bel mezzo di un tour europeo, Johnny Winter abbandona questo mondo, Edgar è letteralmente devastato. Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato, le condizioni fisiche del caro fratello erano sempre più precarie, ma in realtà non era assolutamente preparato alla disgrazia e poco poteva confortare il fatto che la scomparsa fosse avvenuta nella maniera più lieve possibile; la morte lo aveva colto nel sonno in un hotel di Zurigo, luogo in cui si sarebbe dovuta compiere un’altra tappa degli show, dopo quella francese al festival di Cahors. Il bisogno di elaborare il lutto si è protratto per tanto tempo e la musica è riuscita in parte a lenire un dolore insopprimibile, che ha trovato finalmente una valvola di sfogo in Brother Johnny, ad aprile 2022, quasi otto anni dopo.

In realtà il polistrumentista di Beaumont non sarebbe riuscito nel suo intento senza lo sprone dell’adorata moglie Monique, al suo fianco ormai da una vita, e di tre personaggi chiave per la realizzazione del disco. Bruce Quarto si è rivelato cruciale per soddisfare la volontà di Edgar di risultare il più credibile possibile: quest’opera nasce solo e unicamente per celebrare l’artista, senza speculazioni commerciali e il boss della Quarto Valley Records possiede tutte le credenziali per rispettare il proposito, vista la sua smisurata passione per cultura e musica, diventata solo in seguito un vero e proprio lavoro. Ross Hogarth è invece il produttore al quale Edgar deve la rinascita a partire dal 2008 e la sua esperienza, il suo affetto e stima consentono la miglior scelta degli ospiti e session man per il progetto. Infine Greg Bissonette, instancabile re delle collaborazioni artistiche più svariate, da David Lee Roth e Steve Vai a Larry Carlton e Santana, risulta il “confezionatore”, il suggellatore delle alchimie musicali di Brother John. Personaggio dal drumming molto tecnico e versatile, conosciuto da Winter durante le varie evoluzioni di line-up della Ringo Starr & His All-Starr Band, rappresenta il suo perfetto alter ego, e lo asseconda e accompagna meravigliosamente nella stesura della struttura iniziale dei brani, ove solo piano e batteria tessono le melodie.

La sezione ritmica trova il groove perfetto e ragione di esistere se si aggiunge il basso e qui giungono i contributi preziosi di Bob Glaub, le cui linee sonore puntuali e aggressive hanno arricchito di solidità il rock dei Journey, di Springsteen e Fogerty, solo per citarne alcuni, e di Sean Hurtley, uno dei performer più sensibili ed empatici su questa terra, capace di “entrare” nelle canzoni con il suo strumento, come se fossero state composte da lui.

 

Diciassette brani totali, due composti per l’occasione e il resto che si divide tra originali e cover, sintetizzano il percorso di Johnny Winter, tutti architettati e selezionati minuziosamente: nell’esauriente booklet di trenta pagine (ben fatto, ecco uno stimolo all’acquisto dei supporti fisici!!) che accompagna il CD e il vinile, Edgar descrive con commozione, devozione, rispetto e sincerità tutte le scelte operate, citando a uno a uno gli ospiti e analizzando ogni singola traccia. Viene anche scandagliato, tra le righe, il rapporto altalenante come fratelli, dagli inizi gioiosi dove erano un tutt’uno, completamente dedicati all’amore per la musica, ai momenti di rivalità e divisione fino alla riappacificazione degli ultimi anni, con Johnny finalmente ripulito da droghe, sostanze e “cattive compagnie”, e la prospettiva, purtroppo mai avvenuta, di suonare insieme in un tour denominato Rock ‘n’ Blues Fest. Proprio in queste date mancate, comunque completate da Edgar e la band in suo onore, nasce l’idea da cui, dopo una lunga gestazione, prende forma Brother Johnny. Eseguire durante quegli spettacoli alcune canzoni simbolo del chitarrista texano, sentire la forza e il conforto di tali note diviene una sorta di epifania e spiana la strada al progetto.

Joe Bonamassa è lo special guest opener con una torrida versione di "Meantown Blues", uno dei cavalli di battaglia scritti interamente da Johnny; viene replicata la potenza del pezzo grazie alla slide incisiva di Joe che torna, stavolta con una Firebird, per un altro brano autografo in scaletta, "Self Destructive Blues", uno shuffle meno noto, ma di grande effetto. In tutto l’album Edgar Winter imperversa, spesso è la voce principale, e la sua tonalità e il timbro ricordano da vicino il fratello; è poi insuperabile al pianoforte, alle tastiere, al clavinet e al sax, dimostrando le svariate declinazioni che lo hanno reso famoso in carriera. Ne sono chiaro esempio la potente "Still Alive and Well", composta dal compagno di mille avventure Rick Derringer e qui trascinata ai confini dell’hard rock, il pirotecnico classico "Johnny B. Goode", capolavoro di Chuck Berry perfettamente calzante a pennello anche per le liriche, e quel maremoto di "Highway 61 Revisited". Trattasi di canzoni al fulmicotone che necessitano di cinture ben allacciate da parte dell’ascoltatore, mentre sul cruscotto di questa irrefrenabile macchina musicale ben oliata sfilano i nomi degli altri protagonisti, ossia Kenny Wayne Shepherd, David Grissom & Joe Walsh e John McFee.

 

Johnny Winter viene principalmente ricordato per l’incredibile quantità di energia rock blues che fuoriusciva dalla sua Gibson, basti pensare a "I’m Yours And I’m Hers", qui presente con la straordinaria partecipazione di Billy Gibbons e Derek Trucks, oppure a "Rock ‘n’ Roll Hoochie Koo", strapazzata ben bene da un assolo stratosferico di Steve Lukather. Tuttavia un suo lato sottovalutato è quello melodico, delle ballate, dei classici R&B con Ray Charles principale musa ispiratrice. Uno dei pregi del lavoro è riportare alla luce perle dimenticate come "Stranger" e scegliere adeguatamente coloro in grado di interpretarla con il cuore. La voce calda e avvolgente di Michael McDonald, la chitarra tagliente di Joe Walsh e la pacatezza dietro alle pelli di Mr. Peace & Love Ringo Starr rendono sublime questo motivo, mentre il canto e l’alto sax di Edgar, unito a una spolverata di fiati condotti da Don Kupka fanno rivivere le emozioni di "Drown in My Own Tears", dal mitico album semplicemente intitolato Johnny Winter, realizzato nel lontano 1969.

Se l’R&B è dunque un altro aspetto dello stile del chitarrista texano, e pure Warren Haynes lo dimostra bene in "Memory Pain", tuttavia il centro di gravità è sempre stato il blues, sia declinato in stile anni Quaranta e Cinquanta, con il trionfo della rivoluzione elettrica di T-Bone Walker e in seguito la genialità di Muddy Waters, sia facendo il verso a quello acustico primordiale di Robert Johnson. É quindi curioso e interessante sentire l’interpretazione dell’indimenticabile "Stormy Monday Blues", quasi jazzata dalle pennellate di Robben Ford e del classico "Got My Mojo Working", fresco e croccante come il pane del mattino grazie all’armonica di un’istituzione del mondo a dodici battute, il leggendario Bobby Rush. Per "When You Got a Good Friend", invece, unica volta nel disco, viene lasciato fare tutto a un solo artista, Doyle Bramhall II, il quale memore della favolosa rilettura compiuta da Johnny, si presenta con una normale acustica a sei corde e due National, resonator e slide, per compiere un’altra meraviglia, coronata da una voce a metà strada tra Hendrix e Stevie Ray Vaughan.

Una performance intensa, scelta come traccia numero nove della raccolta, a mo’ di spartiacque tra la prima e la seconda parte, nonostante cronologicamente sia stata incisa per ultima. Non è un caso che il lavoro prosegua riprendendo furore con "Jumpin’Jack Flash" e le svisate di Phil X, dopo quella pausa intima. I Rolling Stones sono visti come un punto di riferimento, per quella capacità di assorbire la profondità delle radici del blues e trasformarla in qualcosa di moderno, sempre con rispetto, e "Guess I’ll Go Away", da Johnny Winter And (1970), con quel riff “assassino”, va in tale direzione, lo si percepisce anche nella torrida versione presente nel progetto, con ospiti il compianto Taylor Hawkins e Doug Rappoport.

 

“Ho riflettuto molto e mi sono convinto che Brother Johnny non sarebbe risultato completo senza un mio contributo più profondo, non mi bastava cantare e suonare le sue, le nostre canzoni. Serviva qualcosa di più, un pezzo in cui esprimessi ciò che mio fratello provava dentro di sé, le proprie cicatrici dell’anima, e un altro che mettesse me in primo piano, emozionato, commosso per tutte le nostre vicissitudini e ora in veste di messaggero per le generazioni future, al fine di non dimenticare chi erano i Winter”.

 

"Lone Star Blues", beatificata dal duetto vocale Edgar/Keb’ Mo’ (formidabili le parti di chitarra di quest’ultimo) e la finale "End Of The Line" sono struggenti e inseparabili: donano il senso ultimo al disco, sono qualcosa di unico e irripetibile, un testamento sonoro per evocare un personaggio fenomenale e segnare la conclusione dell’”Era Winter”.  

Ma sono in piedi, sono ancora in piedi. Dopo tutto questo tempo, attraverso le speranze e le paure, le gioie e le lacrime, ora sembra ancora che sia in piedi, pronto per la fine della corsa”, canta Edgar, che con la metafora del capolinea, del termine della fila, vuole ricordare come lui sia l’ultima ruota del carro, non ci sarà nessuno dopo di loro, non avendo entrambi avuto figli. Gli archi arrangiati con grazia da David Campbell accompagnano questa ballata che lascia senza fiato e parrebbe senza speranza. Opere come questa, tuttavia, fanno credere all’immortalità della musica e non passerà giorno in cui, almeno in un angolo sperduto della terra, le note di "Mean Town Blues", "Still Alive And Well" o "Rock ‘n’ Roll Hoochie Koo" non risuoneranno giulive, spingendo giovani appassionati a imbracciare la chitarra e strimpellare quelle magiche canzoni.