“Parlare del desiderio significa parlare dell’ignoto, del desiderio di libertà: la libertà della nostra vita sociale, che noi assumiamo come nostro principale impegno, aprirà le porte di un nuovo mondo. È impossibile conoscere un desiderio senza soddisfarlo, e la soddisfazione del desiderio è rivoluzione. […] La cultura odierna, essendo individualistica, ha sostituito la creazione con la “produzione artistica”, ed ha prodotto soltanto segni di tragica impotenza. […] Creare è sempre scoprire ciò che non si conosce. È il nostro desiderio a fare la rivoluzione.”
(Constant, editoriale del quarto numero della rivista ‘CO.BR.A’, 1949).
Se ho rispolverato questo lungo passaggio di Constant non è per futile nostalgia o lezioso snobismo, bensì perché lo considero oggi più che mai attuale e di portata tutt’altro che utopica. Esso pone implicitamente una domanda scabrosa: possibile che ci si accontenti delle trite canonizzazioni e dei cliché dell’ortodossia “critica” senza nemmeno provare a scandagliare terreni, idee e luoghi che stanno al di fuori del nostro (anzi, loro) comodo paradigma? Possibile che nessuno abbia il coraggio di ammettere che il “rock” è ormai da decenni un vascello fantasma per turisti?
Fino alla metà degli anni Ottanta (e in buona parte anche negli anni successivi), la relazione tra valore estetico e commerciabilità costituiva non solo il leitmotiv della critica rock, ma un vero e proprio discrimine ideologico del gusto che tracciava un solco profondissimo tra le categorie di “autenticità” e “artificio”. Oggi questo solco è a mio avviso assai meno profondo e le cause di ciò sono molteplici: l’appiattimento intellettuale, la mancanza – che talvolta si fa addirittura rifiuto – di una identità (quale che sia) definita e definente, la normalizzazione del pensiero unico che ha instillato nella società il veleno di certo (falso) suprematismo culturale, il respingimento di evidenze scomode che sfocia spesso nella negazione della realtà stessa – e via di seguito. A ciò, si deve aggiungere il barbaro disinteresse verso l’innovazione artistica – naturalmente in favore dell’innovazione tecnologica – soprattutto da parte di quella “scena” che, a seconda delle sfumature, si autodefinisce indie, alternativa o undergound. Perché il vero problema non è, né è mai stato, il mainstream; il vero, doloroso problema è la mediocrità/superficialità delle risposte culturali in opposizione al mainstream.
In questo senso, Breach, seconda prova sulla lunga distanza del quartetto italostatunitense dopo Keep Your Laws Off My Mind dello scorso anno, si impone, a partire già dal titolo, come una vera e propria “violazione” della narcolessia culturale che pare aver sequestrato emotivamente (e intellettualmente) gli anni Dieci del nuovo secolo; una risposta culturale dirompente che si apre come una “breccia” (appunto) nel cuore della contemporaneità e possiede l’incommensurabile pregio di un’attitudine punk profonda e nient’affatto manieristica.
I polemica non lottano per la ricerca di uno spazio già occupato entro il quale affermarsi: non vogliono sostituirsi al mainstream o a una parte di esso; essi edificano uno spazio proprio nella no man’s land, e da lì conducono un’incessante guerriglia artistica (torna alla mente Fluxus, ad esempio, ma anche lo stesso movimento CO.BR.A citato all’inizio) intesa a creare microfratture nel sociale: da ciò, traggono la propria indistinta identità, ovvero un’identità chiara e percepibile ma non determinata né determinabile; l’outsider deve, infatti, essere non identificabile, poiché basterebbe anche una minima forma di identificazione per fargli assumere una veste di riconoscibilità, rendendolo immediatamente vulnerabile alla cooptazione.
I polemica sono outsider che ballano liberi come dervisci illuminati sulle tristi macerie del “rock”, invitandoci a combattere contro l’emiplegia nostalgica e limitante di un passato tanto glorioso quanto pieno di mercificazioni e inganni (“It’s a never ending cycle, future feeding on the past” canta Hilary alla fine di “A Walk In The Park”). Come loro stessi affermano con lucida autoconsapevolezza, Breach è “violazione di convenzioni, ricerca di purezza, affermazione di identità non definita eppure chiara.” Si definiscono “thinkrock”, e anche qui, posto che se ne discerna l’ironia, l’etichetta è esemplificativa: affondi ritmici lussuosi (Vincenzo Vik Di Santo) che a un orecchio disattento possono apparire scomposti, e in taluni casi lo sono, ma sempre scientemente e in modo funzionale alla traccia sonora; un “chitarrismo” (Zilvio) ora elegantemente spigoloso e cruento, ora crudelmente malinconico e opalino; un basso (Giulio “Polemica” Marino) che scala incessante montagne di groove arrampinando ribollenti frenesie post-punk. E poi c’è Hilary Binder, la cruda bellezza della voce di Hilary Binder che suggella dieci tracce gigantesche, esplosive, definitive.
Gli equilibrismi armonici di “Silly Me”, la baldanza quasi sbarazzina di “A Walk In The Park” in apertura d’album, il magma sfibrato di “Psychopath Mind”, il groove ossessivo e serratissimo di “The Bell”, l’apocalittica, atonale deflagrazione della title-track, tracciano le coordinate di un’opera che distribuisce calci in culo e baci come se non ci fosse un domani e ci ricorda che siamo tutti “Passenger on the ghost ship”, che è anche il titolo del primo singolo estratto, brano tra i più immediati e ingannevolmente semplici del disco, accompagnato da uno splendido video girato al TAC di Oakland che vede protagonista l’artista e danzatrice Leyya Tawil.
Il futuro del “rock”, o di quel che ne resta, passa per Breach.
P.S. Sono le tre del mattino e sono costretto a mettere la parola fine a una recensione che potrebbe essere lunga il doppio (un’esegesi dei bellissimi testi, il simbolismo della copertina creata da Dana Smith, la storia del gruppo…). No, non è la stanchezza: mi sono semplicemente accorto di aver esaurito lo spazio a mia disposizione scrivendo appena la metà di quanto avevo in mente. E allora, chissà, nelle prossime settimane potrei buttare giù l’altra metà. Magari sotto forma di intervista ai polemica. Chissà. Nel frattempo, fatevi un regalo e procuratevi questo disco. Ne avete bisogno.