Born in the USA compie quarant’anni e non so francamente perché stia perdendo tempo a scriverne, considerata tutta la roba che è uscita in questo periodo, tutta prodotta da gente con il triplo o il quadruplo delle mie competenze (segnalo, tra le varie cose, un ottimo speciale sull’ultimo numero di Blow Up).
Oltretutto quando uscì avevo sei anni, ben lontano dal rendermi conto di che cosa stesse succedendo; lo ascoltai per la prima volta nel 2000 o nel 2001, non ricordo di preciso, ma il periodo è grossomodo quello perché sono proprio gli anni in cui cominciavo ad immergermi seriamente nella musica di Springsteen. Conoscevo ovviamente la title track, perché bisognava essere stati su Marte negli ultimi diciotto anni per non averla mai sentita, e probabilmente avevo in mente “I’m Goin’ Down”, ma solo per la nota vicenda di plagio che aveva interessato Roberto Vecchioni con la sua “Voglio una donna”.
Vidi Springsteen dal vivo per la prima volta nell’ottobre del 2002 a Bologna, unica data italiana del The Rising Tour, leg invernale, in uno di quei concerti che sarebbero poi entrati nella mitologia collettiva dei fan italiani. Di Born in the USA, che era ben lontano dall’essere il mio disco preferito, amavo soprattutto “No Surrender”, e fui contento quando la suonò, in quella versione elettrica che negli anni precedenti era divenuta una vera rarità ma che in seguito si sarebbe trasformata in una presenza fissa nelle setlist.
Mi piaceva poi tantissimo “Downbound Train”, che è forse l’unico episodio che giudico tuttora sullo stesso livello dei primi storici lavori; il resto, con la sola possibile eccezione di “Bobby Jean”, telefonatissima ma decisamente emozionante, mi pare davvero poca roba.
Per quanto mi riguarda, Born in the USA non fa altro che confermare la regola non scritta di pressoché ogni carriera musicale: se un artista o una band arriva finalmente al grande pubblico raggiungendo la dimensione mainstream, non lo farà con il suo più grande capolavoro, ma con un prodotto ordinario, che avrà però i mezzi necessari per piacere al più ampio numero di persone possibile.
È un disco, paradosso dei paradossi, legato a doppio filo con Nebraska, monumento del Folk contemporaneo e, soprattutto, unico capitolo dell’artista del New Jersey che è riuscito a mettere d’accordo tutti, fan, detrattori e totali menefreghisti.
La maggior parte delle dodici canzoni che lo compongono sono nate infatti da quelle session solitarie da cui era uscito il precedente eppure, questa volta, riuscì a trovare la quadratura del cerchio assieme alla E Street Band, che due anni prima era rimasta fuori.
La decisione di fare uscire un disco elettrico si dovette molto allo staff della Columbia, che comprensibilmente agognava ad una nuova “Hungry heart” e che non si può dire fosse rimasta proprio entusiasta da un album così lontano dalle sonorità a cui il loro artista lo aveva abituato. Se dobbiamo dare retta a quanto Springsteen dichiarò anni dopo, lui avrebbe preferito di gran lunga lavorare ad un altro disco acustico. Ma tant’è, a volte le ragioni del business sono diverse da quelle artistiche. Si è trattato di una vera e propria sliding door, probabilmente, perché alla fin fine quando con gli appassionati si discute di questo tema, si va sempre a finire sul tema scaletta: tante, troppe, le canzoni escluse che, a detta di molti (e io la penso allo stesso modo), erano di ben altro livello rispetto a quelle poi effettivamente inserite, così che avremmo avuto a che fare con un album del tutto diverso, se solo fossero state fatte altre scelte.
Nella sua versione definitiva, Born in the USA è un album potente e di facile presa, zeppo di potenziali singoli, che finirà per essere uno dei dischi più venduti della storia del rock, estendendo la popolarità del suo autore a tutto il pianeta. Un buon disco, certo, senza dubbio superiore a quasi tutto ciò che sarebbe arrivato dopo (con le possibili eccezioni di Tunnel of Love e The Ghost of Tom Joad, anche se personalmente mi convincono di più anche due capitoli bistrattati come Lucky Town e Magic) ma con la fastidiosa sensazione che sia stato costruito a tavolino proprio per scalare le classifiche.
Non è un lavoro superficiale, però. Probabilmente lo è musicalmente, con una produzione fin troppo “pompata” da parte di Bob Clearmountain, un uso dei Synth che è in tutto e per tutto appiattito sulla moda del momento, e alcune cose oggettivamente di cattivo gusto come “Dancing in the Dark”, che se fece i numeri che fece, non fu certo perché piacque ai fan della prima ora.
Dal punto di vista lirico, però, il livello non si abbassa, e ci vengono consegnate dodici canzoni che pur senza un carattere omogeneo come accadeva in Nebraska, in Darkness on the Edge of Town, e in certa misura anche in The River, riescono a lasciare il segno.
Due sono le tematiche principali ad essere toccate: la prima è quella sociale, che dopo avere fatto una timida comparsa su qualche brano sporadico, viene affrontata qui in misura più ampia, a significare che gli interessi dell’artista verso certe questioni stavano cambiando.
La title track è infatti il racconto dell’esperienza di un reduce dal Vietnam, un conflitto a cui Springsteen non aveva preso parte (si era infatti finto pazzo alla visita di leva ed era riuscito ad essere riformato) ma che aveva conosciuto successivamente grazie alla lettura del libro di Ron Kovic Born on 4th of July da cui è stato tratto anche un celebre film con Tom Cruise) e all’amicizia stretta con alcuni veterani. A questa canzone è legato il famoso episodio di Ronald Reagan, che avrebbe voluto utilizzarla in alcuni comizi della campagna elettorale che avrebbe sancito la sua rielezione (la risposta del suo autore fu quantomeno piccata) ingannato forse dal ritornello martellante e dalla bandiera a stelle e strisce che campeggiava sulla copertina, senza rendersi conto che in realtà il grido “Nato negli Stati Uniti” suonava ben amaro, alla luce delle vicende che vi erano narrate. Per la verità non fu l’unico ad equivocare: anche molti fan, disorientati dalla potenza dell’attacco del brano e dal look smaccatamente macho sfoggiato durante il tour, temettero una svolta nazionalistica e neoliberista. La verità è che il suono bombastico e roboante creava un efficace contrasto tra musica e testo, molto di più di quello che sarebbe successo se il pezzo fosse stato proposto nella sua versione originale (recuperatela su Tracks, se non la conoscete, e vi farete un’idea).
C’è poi “My hometown”, che descrive il lento e inesorabile declino delle piccole città del New Jersey in cui Bruce e la sua famiglia erano cresciuti, tra scontri razziali e crisi economica. Ci sono i racconti di vite ai margini, tra lavori duri e mal pagati e i guai con la legge: i protagonisti di “Darlington County” e “Working on the Highway” aspirano al divertimento, al vero amore e alla stabilità economica ma le loro storie non sono a lieto fine e la melodia festosa e scanzonata di entrambi i brani (decisamente trascurabili, occorre dire) non riesce a farcelo dimenticare.
La seconda tematica affrontata è come sempre quella affettiva, dal rapporto con la donna amata ai legami con gli amici. Bisogna dire che per quanto riguarda le canzoni d’amore, Springsteen aveva fatto di meglio in precedenza. Quelle contenute in questo album non riescono ad essere particolarmente incisive e sembrano a tratti soffrire della artificiosità e dei luoghi comuni di cui questo lavoro è ammantato, anche se il feeling oscuro e tormentato dell’ultima strofa di “Downbound Train” è senza dubbio notevole.
Significative per il percorso del suo autore risultano invece due splendide canzoni sull’amiciza, “Bobby Jean” e “No surrender”. La prima è un toccante omaggio al chitarrista Steve “Miami” Van Zandt (o Little Steven, come lo chiamano affettuosamente i fan) che prima dell’inizio delle registrazioni del disco aveva deciso di lasciare la E Street Band per dedicarsi alla sua carriera solista ed ad altri progetti (sarebbe tornato in occasione della reunion del 1999). Il testo non parla direttamente di lui, ma è una sorta di lettera che l’io narrante scrive ad un amico, per salutarlo prima della partenza: “Sono passato da casa tua l’altro giorno, tua madre mi ha detto che te ne eri andato. Disse che non c’era nulla che avrei potuto fare, non c’era nulla che si sarebbe potuto aggiungere. Io e te ci conoscevamo da quando avevamo sedici anni, speravo che l’avrei saputo, speravo che ti avrei potuto chiamare soltanto per poterti dire ciao, Bobby Jean.” Il nome del chitarrista è celato dietro uno pseudonimo ma l’amicizia qui descritta è di quelle forti, quelle che nascono da ragazzi sull’onda di interessi comuni ma che poi si rafforzano col passare degli anni e diventano legami per la vita: “Sei rimasto attaccato a me quando tutti gli altri si voltavano e storcevano il naso. Ci piaceva la stessa musica, ci piacevano le stesse band, ci piacevano gli stessi vestiti. Ci dicevamo l’un l’altro che eravamo i più sfrenati, la cosa più folle che avessimo mai visto. Speravo che l’avrei saputo, speravo che ti avrei chiamato solo per dirti ciao, Bobby Jean”.
Ed è un’amicizia vera proprio per questo, perché non si scongiura l’altro di restare a tutti i costi ma si è contenti che l’altro possa percorrere la sua strada ed essere felice. Nella consapevolezza che quel legame è vero per quello che ha dato alla propria vita, non perché l’altro rimane per forza sempre con noi: “Può darsi che tu sia qua fuori o sulla strada da qualche parte, in qualche bus o treno a viaggiare lontano, in qualche stanza di motel dove ci potrà essere una radio che suona e tu mi ascolterai cantare questa canzone. Se è così sappi che sto pensando a te e a tutte le miglia che ci sono tra noi. E ti sto giusto chiamando un’ultima volta, non per farti cambiare idea ma solo per dirti che mi manchi, amico. Buona fortuna, addio”.
Questa canzone diventerà presto una delle più amate dai fan, spesso e volentieri suonata dal vivo, a significare quel particolare legame che in tutti questi anni ha tenuto uniti Springsteen e i membri della E Street Band, sicuramente uno dei gruppi più coesi della storia del rock.
In questa direzione si muove anche “No surrender”, che può essere considerata un vero e proprio manifesto dello Springsteen-pensiero. A partire dal suo famosissimo attacco, vagamente populista ma indubbiamente efficace: “Abbiamo imparato più da una canzone da tre minuti che da tutto quello che ci hanno insegnato a scuola”, il pezzo utilizza semplici ed efficaci metafore militari (“Come soldati in una notte d’inverno con una consegna da rispettare, nessuna ritirata, nessuna sera, fratelli di sangue in una notte tempestosa con un voto da difendere, nessuna ritirata, nessuna resa”) per gridare a tutti che, se la vita è una guerra, allora quel che conta è combattere, sempre e comunque, sostenuti da quei pochi e fedeli amici che ci vengono messi sul cammino. Inno da cantare a squarciagola durante i concerti (anche se, inspiegabilmente, durante il tour del disco veniva eseguita poco, e sempre in versione acustica), “No surrender” è anche una fedele fotografia di quello che il suo autore desiderava per sé: “Le luci della strada stanotte si fanno più tenui, le pareti della mia stanza si restringono, c’è una guerra là fuori e mi dicono che non sta a noi vincerla. Voglio dormire sono un cielo pacifico nel letto della mia amante, con la campagna spalancata davanti agli occhi e questi sogni romantici nella mia testa.” In poche parole: “Voglio essere felice.”
Per il momento, l’unica cosa che aveva ottenuto era il successo. E questo uomo ormai trentacinquenne, che mandava in delirio ottantamila persone a sera dall’America, all’Asia, all’Europa, era in realtà ancora fragile e insicuro. Potrà apparire paradossale, ma il singolo di maggior successo di questo disco, “Dancing in the dark”, rappresenta anche la fotografia più fedele e impietosa dello stato d’animo dell’uomo Bruce Springsteen: “Mi alzo dal letto alla sera e non ho nulla da dire. Rientro a casa alla mattina e vado a dormire con la stessa sensazione. Non sono nient’altro che stanco amico, solo stanco e stufo di me stesso. Hey piccola, mi servirebbe solo un piccolo aiuto”.
Anni dopo, quando nella sua autobiografia racconterà esplicitamente dei suoi problemi di depressione, si capirà che quel brano conteneva già parecchie avvisaglie. Divenne una hit molto più grande di “Hungry Heart”, fu remixata in diverse versioni, ballata nelle discoteche, e ad essa è indissolubilmente legato il video di Brian De Palma con protagonista una giovanissima Courtney Cox; eppure in tanti, in un’epoca dove, rispetto ad oggi, le polarizzazioni ideologiche erano decisamente accentuate, la giudicarono a lungo come un tradimento o, se non altro, una macchia su un curriculum sino a quel momento ineccepibile. Personalmente mi riconciliai col pezzo solo quando, a partire dal 2002, fu suonata in una potentissima versione rock, senza tastiere e con un tiro irresistibile, a testimonianza che spesso e volentieri, più della canzone può l’arrangiamento (purtroppo negli ultimi tour è stata progressivamente rallentata ed è ritornata sempre più simile all’originale).
Born in the USA è, in sostanza, uno dei dischi più famosi della storia del rock, ma non è neppure lontanamente uno dei più belli; del resto non è vero che la maggioranza ha sempre ragione, e piacere a tutti può essere considerato tutto tranne che un vanto.
La dimensione planetaria di un artista è un’arma a doppio taglio, da qualunque angolazione la si voglia guardare: arrivare a tanta gente significa il più delle volte rinunciare a qualcosa della propria visione, scendere a compromessi; sono pochissimi i casi (o forse nessuno?), nella storia della musica, di lavori che hanno cambiato il conto in banca dei propri autori e nello stesso tempo ne hanno rappresentato il punto più alto della carriera.
Bruce Springsteen non fa eccezione ed è per questo che questo disco, chiedete a qualunque fan con una certa competenza in materia, non sarà mai considerato tra i suoi migliori. Non è invecchiato neppure benissimo, probabilmente, condividendo lo stesso destino di tutti quei lavori che hanno voluto a tutti i costi rimanere al passo con i tempi. È comunque giusto ricordarlo e celebrarlo, perché la storia, in qualunque modo la si voglia leggere, non può essere ignorata.
Speriamo a questo punto in una degna celebrazione, magari con quella deluxe edition già realizzata per alcuni titoli precedenti, che contenga quelle fantomatiche outtake che ancora non hanno avuto modo di uscire sui circuiti ufficiali. Chissà mai che non si riesca a donare nuova vita ad un disco importante quanto controverso.