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REVIEWSLE RECENSIONI
06/09/2024
Mercury Rev
Born Horses
Born Horses dei Mercury Rev è un disco camaleontico: spazia da fragori jazz, ad un post rock di matrice psichedelica, passando per pertugi quasi ECM. Un viaggio in gorghi sonori che lambiscono gli spazi laterali dell’animo. La particolarità di questo nono album? Essere più che cantato, recitato. Chi riuscirà ad accettare la forma sonora dello spoken word sarà tuttavia ripagato da un sound fuori dal mainstream (anche rock) imperante.

Dici Mercury Rev e ti viene in mente inevitabilmente il loro capolavoro inciso nel 1998, Desert Songs. Ebbene il nuovo album del gruppo statunitense richiama nell'immagine di copertina quel grande disco, ma le sonorità che propone non vi si avvicinano assolutamente.

Jonathan Donahue, da quel dì cantante e mente pensante dei Mercury Rev, sempre con il fidato Grassopher al fianco, ha inciso diversi altri album, ma nessuno ha mai raggiunto il vertice di popolarità di quel long playing e soprattutto del pezzo maggiormente rappresentativo ivi presente, "Holes".

Nel corso della loro oramai quasi trentennale carriera, i Mercury Rev sono stati propensi a diverse piroette musicali che raggiunsero forse il loro culmine nel 2019 con l’incisione di un album completamente sui generis, The Delta Sweete, dove riproponevano e rivisitavano (con l’aiuto e la complicità di straordinarie voci femminili quali Hope Sandoval, Laetitia Sadier e Phoebe Bridges) un album cult della leggenda del country, Bobby Gentry.

 

Insomma i Mercury Rev sono un gruppo assolutamente “indecifrabile”: è come se scrivessero musica in un certo qual senso fuori dal tempo, che non tenesse conto delle mode musicali (passeggere?). Un suono ricco, stratificato, dove troviamo la strumentazione classica del rock, chitarra, basso, batteria, ma anche ottoni, archi, trombe (come nella bellissima "Mood Swings", brano che apre l’album, ma anche nella successiva "Ancient Love") e tanto altro.

Ma la particolarità di questo nuovo album è che John (ad eccezione della commovente ballad "A bird of no address", una delle tracce più coinvolgenti) non canta ma recita, con voce profonda, una serie di testi scritti da se stesso.

Quindi, seppur la cover del disco rimandi (anche sotto il profilo dei caratteri tipografici usati e dei colori delle lettere gialli e rossi) al loro capolavoro Desert Songs, che a sua volta si poneva quale tornante musicale rispetto ai primi due dischi totalmente psichedelici, dimenticatevi lo psy-pop barocco di quel disco: qui le texture sonore diventano un flusso immersivo dove emergono fiati, ottoni, inserti pianistici e synth che virano all’ambient.

 

Non è un caso che il duo Jonathan Donahue e Grassopher, affiancato nell’occasione anche dalla tastierista austriaca Marion Genser e dal pianista Jesse Chandler quali nuovi membri permanenti del gruppo, indichi come una delle fonti di ispirazione il minimalista Tony Conrad, membro dei Dream Syndicate di La Monte Young con John Cale.

Se queste, unitamente all'album Sketches of Spain del periodo experimental jazz-fusion di Miles Davis, e alla tromba indimenticabile di Chet Baker, sono le fonti di ispirazione del nuovo album, ecco che i contenuti musicali dello stesso diventano maggiormente comprensibili (e condivisibili, perlomeno a parere di chi scrive).

Solo nell’ultimo brano, "There’s always been a bird in me", la sezione ritmica diviene più marcatamente rock, come se i Mercury Rev volessero farci intendere che, se volessero, potrebbero ancora darci brani più musicalmente ortodossi.

Ma, appunto, non lo vogliono, e (almeno per quanto riguarda il sottoscritto) va bene così.