Amarillo, Texas, 1997
Da una parte abbiamo i giovani punk, quelli scapestrati, artisti e artistoidi.
Con i loro covi caotici, con i graffiti a portare il loro tag, con la musica sparata a tutto volume.
E l'alcool.
E la follia.
Quella dei diversi.
Dall'altra abbiamo i giovani liceali della squadra di football.
Quelli che si rivolgono a Dio ma poi si offendono e si sfidano.
Quelli dall'apparenza perfetta, con le loro feste/falò.
E l'alcool.
E la follia.
Quella dei privilegiati.
In mezzo, la polizia e l'opinione pubblica.
Che non ha problemi a scegliere con chi schierarsi se da una parte ci sono creste, catene, tatuaggi, dall'altra camice inamidate e pantaloni kaki.
Lo scontro, fra i due gruppi, è inevitabile.
Si rimanda.
Fatto di piccoli incidenti, di piccole provocazioni.
Finché nella notte del 12 dicembre tutto esplode.
E a rimetterci è Brian Deneke.
19 anni.
Una cresta color verde.
Un futuro come artista.
O come produttore musicale.
Chi lo sa.
Non lo sapremo mai.
Il film di Jameson Brooks ricostruisce i fatti, in modo leggermente di parte (e duole ammetterlo, pure un filo troppo retorico in alcuni punti), rimanendo appresso a Brian, a suo fratello e i suoi amici. Mostrandoci scorci della loro vita anarchica, sì, ma non troppo.
Con genitori presenti e amorevoli.
La colonna sonora, va da sé, è punk. Quello vero, quello crudo, che solo i veri punk possono amare.
La ricostruzione dei fatti di quella sera è così cruenta che si fatica a tenere gli occhi aperti.
Si fatica a credere, poi, alle parole spese in tribunale, a giustificare quell'omicidio, ad accusare non un omicida a sangue freddo ma uno stile di vita, una scelta musicale.
Il caso di Brian Deneke in America è salito alla ribalta delle cronache, facendo di Amarillo una vera e propria bomb city, non solo perché probabile obiettivo per le sue scorte nucleari.
Concerti sono stati fatti in memoria di Brian, canzoni composte per ricordarlo, e a salire sul banco degli imputati ancora una volta l'ingiusta giustizia americana.
A fare da narratore esterno alla vicenda, e a dare un più al film, è nientemeno che Marilyn Manson, che analizza, riflette e ci fa riflettere su quella diversità che non dovrebbe mai portare alla violenza.