I commenti finali hanno tutti lo stesso tenore: ci voleva, finalmente, un concerto così. Non tanto per il modo in cui è stato vissuto, finalmente in piedi, finalmente ammassati, finalmente potendo ballare e scatenarsi senza problemi. Il punto è soprattutto la natura del live in sé. I Bodega fanno musica con le chitarre, pur non disdegnando qualche piccolo accorgimento elettronico, e sul palco fanno casino, si divertono un mondo, sprigionando un’energia che si comunica direttamente a tutti i presenti, per ottanta minuti di totale sintonia tra pubblico e band.
Ecco, un concerto dovrebbe essere esattamente questa roba qui. Con la differenza che, siccome sono vecchio e sono cresciuto con l’heavy metal, sono attaccato ad un’idea di “live” che è ancora tipicamente vecchia scuola: le basi non mi piacciono, sul palco voglio vedere sempre chi fa cosa, voglio vedere che ogni singola nota, ci fossero anche dei sintetizzatori, è suonata in diretta.
I Bodega mi hanno conquistato soprattutto per questo motivo. È un concerto di altri tempi, probabilmente, ma è anche (mi rendo conto che qui il discorso potrebbe diventare scomodo) forse l’unico modo possibile di fare un concerto.
Al di là di tutto, una cosa è chiara: al loro primo passaggio in Italia, gli americani hanno dimostrato di essere una live band di altissimo livello, un’altra categoria rispetto alla loro versione da studio (sempre e comunque ottima, beninteso). Broken Equipment ha portato al quintetto di Brooklyn le attenzioni della stampa specializzata, dopo che già coi precedenti Endless Scroll e l’EP Shiny New Models erano riusciti a far parlare bene di sé. Per quanto fossero già bravi prima, con questo sophomore rendono evidente un deciso salto di qualità, con canzoni fresche e spontanee che hanno arricchito il roccioso Indie Rock dalle venature Punk degli esordi con suggestioni varie che spaziano dai B52s agli LCD Soundsystem, sempre con un’irruenza di stampo Garage a ricoprire il tutto.
Dal vivo suonano molto più veloci, aggressivi e, per forza di cose, più vicini agli esordi, non è un caso che i vecchi brani siano presenti in larga abbondanza (compresi anche diverse cose del loro precedente progetto Bodega Bay) e che quelli nuovi siano suonati in maniera molto più selvaggia, tanto da renderli quasi irriconoscibili in alcuni punti.
Sul piccolo stage del Magnolia (il concerto si tiene sul palco più piccolo, quello interno vicino al bar) i nostri hanno poco spazio di manovra ma si producono ugualmente in una prova incendiaria. L’inizio con “Margot” e “How Did This Happen?!” è devastante, i volumi sparati a mille anche se la resa sonora è comunque precisa (suonano benissimo, senza sbavature e imprecisioni), Nikki Belfiglio è irresistibile nel trascinare pubblico e band, teatrale nelle movenze, pesta il suo Charleston con decisione e ogni tanto armeggia su un piccolo sequencer; per il resto, canta (o urla, a seconda dei casi) trasmettendo energia a mille e una buona dose di allegria. Gli altri non sono da meno: l’altra voce del gruppo, Ben Hozie, suona la chitarra ed è nel complesso più compassato anche se si vede che se la gode un mondo; il chitarrista Dan Ryan, fintamente spaccone, perennemente in posa, è colui che si occupa di tutti i fraseggi melodici e non disdegna lunghi e rumorosi assoli nei finali, a volte proteso sull’orlo del palco verso le prime file, come nei più triti luoghi comuni del Rock. E poi c’è una sezione ritmica devastante composta dal bassista Adam See, fisicamente nelle retrovie, poco appariscente ma autentica macchina da guerra e Tai Lee, che suona in piedi la sua batteria, saltando e dimenandosi per tutto il tempo, spettacolo coreografico oltre che autentico centro propulsore del gruppo. È soprattutto la forza ritmica a colpire (da cui il principale motivo del paragone coi B52s), un dato che emerge soprattutto negli episodi più cadenzati, con Nikki e Tai che si compenetrano a vicenda a livello percussivo e Adam che martella sopra di loro.
Crea anche un singolare contrasto il continuo terremoto delle canzoni (che sono brevi e che vengono suonate una via l’altra, quasi senza pause), il loro fare divertito e gigione, con gli argomenti della maggior parte dei testi, soprattutto quelli del nuovo disco, concettualmente profondi (Adam See insegna filosofia ma tutta la band si è ritrovata durante la pandemia con alcuni amici a leggere libri di questo argomento), incentrati su una critica alla massificazione causata dal capitalismo e dai mass media che è in parte debitrice degli scritti di Herbert Marcuse. Ma il contrasto è in generale tra musica e testi, perché poi quando si è nel pieno di un loro live show, quello che conta è ballare, non tanto meditare sulle derive dell’odierna società dei consumi.
Da “Statuette on the Console” a “How Can I Help Ya?”, da “NYC (Disambiguation)” a “Territorial Call of the Female”, fino alla sghemba e dissonante “Doers”, il nuovo album viene passato in rassegna quasi tutto, intervallato dalle bordate pazzesche delle varie “Network”, “Tarkovski”, “Top Hat No Rabbit”, “Warhol”, fino agli inni “Name Escape” (col santino di James Murphy in consolle), “Jack in Titanic” e “Shiny New Model”. Tutto questo mentre il pubblico risponde alla grande e risolvendo anche il problema tecnico del microfono di Ben che ad un certo punto ha smesso di funzionare, costringendo il tecnico a mettere a posto il tutto districandosi tra i cinque che, completamente presi dall’entusiasmo, proprio non volevano smettere di suonare.
La chiusura è sorprendentemente meditativa, con una toccante versione di “Charlie”, un brano del primo disco che Ben scrisse per un caro amico scomparso anni prima.
Sarebbe il momento di terminare (c’era un altro evento in programma in seconda serata, ragion per cui il concerto era iniziato in anticipo) e quando il gruppo si ritira nel backstage dalle casse è già partita la musica diffusa. Non c’è niente da fare però: le grida di entusiasmo sono troppe e da sotto il palco non se ne va nessuno. Non resta altro che ripresentarsi e regalare un’ultima e straordinaria “Truth is No Punishment”, versione fiume con tanto di soli, accordi reiterati e rumorismo vario, una gestione degli spazi e delle dinamiche impressionante, da vera live band.
Ci voleva un concerto così. E sarebbe davvero un errore bollare i Bodega come “l’ennesima band Indie Rock”. Chi non li ha visti dal vivo, davvero, non sa di che si stia parlando.
Photo courtesy: Lino Brunetti