A partire dalla sua esperienza con Delaney & Bonnie, quando si è incontrato per la prima volta con George Harrison, Bobby Keys è diventato una specie di “guru dei fiati” per le stelle del rock and roll. Ha fatto parte dei Mad Dogs di Joe Cocker e Leon Russell, si è sempre distinto nella lineup allargata dei Rolling Stones insieme ai compagni Jim Price e Nicky Hopkins e ha suonato negli album di King Curtis, Eric Clapton, Bobby Whitlock, John Lennon, Marvin Gaye e Lynyrd Skynyrd solo per citare la punta dell’iceberg delle sue collaborazioni. Nonostante questo curriculum artistico di alto lignaggio il sassofonista texano classe 1943 ha sempre minimizzato con molta umiltà le sue capacità e l’importante impronta lasciata nella musica per decenni.
«Non sono in realtà un vero e proprio session man, anche se tanti mi ritengono un top performer. Ho sicuramente speso tanto tempo insieme ad artisti che conosco e mi conoscono bene, ma non so leggere la musica. Per questo non merito tale appellativo. Non mi ritengo un sassofonista “a chiamata”, non potrei mai farlo. Riesco a essere me stesso solo nei progetti in cui mi identifico totalmente nella musica di chi me la propone. E lì mi viene l’ispirazione, riesco a mettere a nudo la mia anima e suonare con il cuore».
Proprio in funzione di queste parole, tratte dalle liner notes del suo disco in questione, si evince che la pletora di ospiti presenti negli otto frizzanti strumentali, a cavallo tra funk, rock, jazz e blues, si esibisce principalmente per gratitudine nei confronti di un amico sempre generoso con loro. La sintonia tra una sezione ritmica del calibro di Carl Radle e Jim Gordon (presente anche nelle vesti di coproduttore), corroborata da nomi famosi quali Klaus Voorman e Corky Laing, e la parata di special guest è massima, grazie all’elevata affinità elettiva tra ciascuno di loro. Dave Mason, George Harrison, Ringo Starr e Jack Bruce condividono lo stesso percorso nello showbiz britannico e sono senza dubbio affiatati pure con l’amico oltreoceano Leslie West, estroso chitarrista fondatore dei Mountain.
Importanti aggiunte per le colorate sonorità dell’opera sono inoltre i già citati compagni d’avventura con gli Stones, ovvero il pianista Hopkins, dal tocco morbido, ma letale, e il trombonista e arrangiatore di fiati Price, abile a far “girare” gli ottoni in maniera impeccabile. Il brano d’apertura “Steal from a King”, composto da quest’ultimo insieme a Mason e Gordon, ne è chiaro esempio e piace per come accanto a un tagliente riff di chitarra sostenuto da un incessante pianoforte, affiancato da un basso e una batteria scatenati, si distendano sassofono e tromba a ricamare trame potenti, prima di una serie di assoli da favola. “Smokefoot” ha invece un groove funky da paura e a tratti sembra deragliare nel progressive, per poi virare verso attitudini alla Miles Davis di Bitches Brew, lavoro adorato da Keys.
“Command Performance” nasce ancora da un’intuizione di Price che dimostra come la band sappia declinare le sue attitudini in un southern rock a metà strada tra Delaney & Bonnie e Allman Brothers Band. È un brano chiaramente azzeccato per spalancare le porte a “Sand & Foam”, un’interessante cover strumentale di “Devil Road”, cantata da Rene Armando poco più di un anno prima in un’infuocata session psichedelica per il secondo, agognato, ma mai realizzato album dei Derek and the Dominos, e ora carpita e instradata su questo disco da quel geniaccio maledetto di Jim Gordon.
“Altar Rock” e “Crispy Duck” sottolineano nuovamente la caratura di Bobby Keys, abile a inserirsi con le sue note improvvisate cariche di calore, mentre desta sorpresa la rilettura di un classico di Booker T. Jones and the M.G.’s, “Bootleg”, trasformato in un impetuoso boogie rock. Ma non è finita qui! Il pezzo conclusivo “Key West” è uno degli highlight con i fiati e l’organo a sostenere i soli di un indiavolato Leslie West.
“Era l'incarnazione dell'uomo che suona il sax nel rock & roll”, racconta Keith Richards descrivendo con poche trancianti parole cosa rappresentasse Bobby nel mondo della musica. Un artista a tutto tondo, definito anche, per rimanere in tema, “Il sesto Stone”. “Brown Sugar”, “Can’t You Hear Me Knocking” e “Sweet Virginia” non sarebbero state le stesse senza il suo contributo. Tuttavia, come si è visto da questo suo episodico album, avrebbe potuto essere pure un grande solista. Se ne è andato senza tanto clamore in una fredda notte di fine autunno nel 2014, in seguito alle complicazioni di una cirrosi epatica che lo affliggeva ormai da tempo, lasciando un vuoto colmato solo dalla consapevolezza che le sue note suoneranno in eterno nelle sue canzoni: non solo quelle incise per gli altri, meraviglioso “sideman autodidatta”, ma anche queste di cui abbiamo appena parlato, splendide chicche di un personaggio indimenticabile da riscoprire e custodire.