Se in questi ultimi due decenni c’è un artista che merita di essere definito erratico, ebbene, quello è Jack White. Come Neil Young, del quale quattro anni fa ha prodotto quel bizzarro progetto che è A Letter Home (un album di cover registrato in un Voice-o-graph del 1947 perfettamente restaurato), il quarantaduenne chitarrista del Michigan non si è mai fatto cogliere dove uno pensava di trovarlo. A guardarla in prospettiva, fin dai primi passi come batterista dei Goober & The Pals fino a questo Boarding House Reach, suo terzo album solista, tutta la carriera di White ha avuto come obiettivo principale la fuga dal già detto e dal già fatto, in un alternarsi spesso frenetico di progetti paralleli, supergruppi e comparsate varie. Non è quindi un caso se all’apice della popolarità con i The White Stripes, dopo il grande successo di White Blood Cells e Elephant, che al principio degli anni Duemila hanno fortemente contribuito a diffondere la formula (poi abusata) del duo chitarra-batteria, White abbia prima inciso un album ostico come Get Behind Me Satan (dove la chitarra veniva accantonata in favore del pianoforte) e poi, assieme al conterraneo Brendan Benson, abbia formato i The Raconteurs per dedicarsi al Power Pop più classico.
Ecco spiegato perché Boarding House Reach sia così diverso dai precedenti Blunderbuss e Lazaretto, due album molto quadrati, perfettamente incanalati nella tradizione del Classic Rock e dell’Americana, fortemente influenzati da Nashville (città nella quale Jack White si è trasferito poco prima della fine del sodalizio artistico con Meg White), con tutti gli strumenti e gli arrangiamenti al posto giusto. Evidentemente, dopo aver vinto nel 2015 il Grammy per la Best Rock Performance con il singolo “Lazaretto”, Jack White deve aver temuto di essere entrato a tutti gli effetti a far parte della nomenclatura del Rock e di essere ormai percepito dal pubblico e dalla stampa specializzata come una sorta di difensore e continuatore della tradizione. Niente di più lontano dal vero, dal momento che il primo album dei The White Stripes, un’esplosiva miscela minimalista di Punk à la The Stooges e Blues, è stato un momento di rottura in un periodo dove le boy band e il Pop Punk la facevano da padroni.
Frutto di un esperimento allo stesso tempo musicale e sociale – registrare un album in un lasso di tempo ristretto tra New York e Los Angeles (non la familiare Nashville, quindi) assieme a musicisti di estrazione Jazz e Hip Hop – Boarding House Reach è fortemente influenzato dai lavori di Jay-Z e Kanye West, così come i dischi di Kendrick Lamar sono stati una delle fonti di ispirazione di David Bowie durante la realizzazione di Blackstar. Ma se l’epitaffio del Duca Bianco era un album rigoroso e formalmente impeccabile, qui Jack White si lascia andare come il Kanye West più selvaggio, in un accumulo postmoderno di stili e generi, tanto che le uniche canzoni che si possono definire tradizionali sono solamente tre, “Connected by Love” (non a caso primo singolo), “Corporation” e “What’s Done is Done”, mentre le restanti dieci tracce sono un distillato di puro delirio sonoro. Per esempio, “Corporation” è un Funky sbilenco che sembra uscito da quei film Blaxploitation tanto amati da Quentin Tarantino; “Abulia and Akrasia” è uno Spoken Word con il bluesman australiano C.W. Stoneking; in “Ice Station Zebra” è come avere i The White Stripes sotto MDMA; “Everything You’ve Ever Learned” è un insistente tappeto di percussioni; “Respect Commander” sembra un pezzo di Beck uscito direttamente da Odelay; “Get in the Mind Shaft” è un recitato per vocoder e tastiere che sembra preso di peso da una colonna sonora Sci-Fi; “Humoresque” è un pezzo per piano e voce che si basa sulla settima parte dell’omonimo ciclo pianistico di Antonín Dvo?ák, con un testo aggiunto da Howard Johnson all’epoca di Tin Pan Alley, il tutto arrangiato come se fosse un brano dei Radiohead.
Vista la tanta carne messa sul fuoco da Jack White nel corso dei 44 minuti che compongono Boarding House Reach, è chiaro che il grande difetto dell’album non può che essere la sua forte eterogeneità. A differenza dei suoi modelli di riferimento, qui manca la maestosità che possiedono album come To Pimp a Butterfly e My Dark Twisted Fantasies, così come la loro capacità di essere contenitori che custodiscono canzoni molto diverse tra loro ma perfettamente collocate all’interno di una narrazione che le tiene insieme. Qui invece gli stili sono tanti, forse troppi, le declinazioni dei pezzi le più svariate e l’accumulo dei generi è fatto per contrasto e non per affinità, per cui l’ascoltatore finisce per trovarsi di fronte a un ottimo disco che però è tale solo sulla carta. Esauriti lo stupore e l’esaltazione delle settimane che seguono il primo ascolto, di Boarding House Reach si rischia di ricordare solo le eccentricità, per poi etichettarlo come il classico album che è facile ammirare ma poi è difficile amare.