Non credo d'aver mai menato scandalo nella mia vita. Qualche sparata ogni tanto. Soprattutto negli ultimi tempi.
Negli ultimi tempi molte cose che in passato mi regalavano piacere (o meglio: eran piacevoli abitudini) sono scadute, ai miei occhi (o meglio: ai miei sensi) a noiosissime incombenze; tanto da averle cassate dall'esperienza quotidiana. Son diventato, insomma, insofferente; a tratti oltremisura. Dei libri non parliamo; più ne leggo meno mi piacciono. Ho fucilato parecchi autori, dismesso interi settori della biblioteca. Col tempo si diviene essenziali, forse. Fatto sta che ormai sopporto poco e se un disco, uno scritto, un quadro devono appesantire il mio piatto, i miei scaffali o le mie pareti devono essere il risultato di un vaglio spietato.
Ma dicevamo delle sparate. Sparate per delle questioni musicali ne ricordo poche, ma buone. Una volta tentai di strappare una EKO dalle mani importune di un tizio che tentava i primi accordi di “Hey Jude”. Ancora: mi torna in mente un battibecco a proposito dei Led Zeppelin. Uno screzio a causa di Elton John e Lou Reed. E ricordo gli inevitabili scontri con i cultori delle Corporazioni, ovvero coloro che ammettono dignità solo al genere preferito: i melomani classici (da cui discendono gli odiosissimi audiofili), i proggaroli, i metallari (forse i più fanatici), i jazzaroli (alcuni sono irritanti), e i bluesaroli. Con un bluesarolo ebbi un amabile diverbio qualche centinaio d'anni fa. Sostenevo, in buon ordine e accettabile italiano, questa tesi: l'unico blues degno di rilievo è quello che promana necessariamente dalla sofferenza e dal disagio (sentimento che, infatti, contraddistingue i bluesmen radicali - nati alle radici del blues - oppure personalità d'eccezionale rilievo). Ed è necessario che sia così, poiché tale musica, a causa della propria stessa struttura, risulta chiusa e devota a uno schematismo ben riconoscibile; quindi, se manca tale elemento, essa si risolve o nella prevedibile maniera o nel virtuosismo più stucchevole. Ne concludevo che Blues Jam At Chess era un buon album, piacevole e caldo, ma anche datato, ripetitivo, manieristico, e tutt'altro che entusiasmante - un disco il cui alone leggendario (gli inglesi di Mayall a Chicago! C'è Peter Green! E Buddy Guy e Willie Dixon!) riposava sull'eredità di recensioni e considerazioni d'alto conformismo.
Lo sventurato rispose.
E ci attaccammo con foga.
Erano bei tempi. Pensate un poco: due ventenni che si accapigliano per i Fleetwood Mac prima maniera!
Erano bei tempi.
Ma dove sono le nevi dell'altr'anno?